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Il calice di Verlaine di Emilio Carrère - da Salvatore Armando Santoro

Il calice di Verlaine di Emilio Carrère
Traduzione di Maria Pina Iannuzzi

Paul Verlaine aveva una sete fatale, una sete mostruosa e suicida, e fu un gran bevitore fino alla morte. A volte sentiva la voce di una sirena favolosa nel fondo glauco dell’assenzio. L’usignolo insolente andava al caffè D'Harcourt e beveva, beveva… Le pagine attendevano in una cartellina, insieme al calamaio brutto, secco, lustro del caffè. L’angolo era un morbido ristagno malinconico nel trionfo di luce e suoni di una folle Parigi.
A volte, con l’orrido calamaio e la penna ossidata, guardando alla folla più ciarliera, Verlaine scriveva una poesia meravigliosa. Quasi mai riusciva a pagare il suo assenzio. Quando arrivavano ammiratori, amici, il poeta, tristemente sbronzo, chiedeva soldi. Poi, a notte fonda, nelle taverne di vagabondi e meretrici, nell’ora della fatica dell’amore di strada, Verlaine scagliava le monete che aveva chiesto, come una pioggia d’oro, alla dolorante marmaglia. Allo stesso modo, i suoi versi erano una pioggia di stelle sulla folla che urlava e lo offendeva vedendolo passare ubriaco al proprio lato.
Nel suo quartiere aveva una grottesca popolarità. Era un vecchio matto, ubriaco e mal vestito, e scagliava denaro ai bambini che sbeffeggiavano la sua strana prodigalità e gli tiravano pietre. Quando morì, le comari fecero grandi smorfie, vedendo arrivare macchine blasonate e fulgenti uniformi. Credevano che il loro vicino fosse un mendicante bizzarro.
E anche spiritualmente era poco conosciuto:

Car elle me comprend et mon cœur transparent pour elle seule, hélas, cesse d'être un problème.

Per quella sconosciuta, bionda o bruna o rossa, il suo cuore trasparente cessò di essere un problema, per lei sola… ma lei non è mai esistita. Per i suoi contemporanei - ad eccezione di pochi nobili di spirito - fu un grande poeta che aveva un difetto, si ubriacava e conduceva una vita assurda: Dissipò le sue felici doti naturali che avrebbe potuto sviluppare per il bene della sua opera e della sua reputazione facendo una vita più metodica.
Conosco personalmente lo sconosciuto idiota che scrisse questa frase. È una sorta di imbecille, di quelli che abbondano in ogni luogo: l’imbecille cosmopolita. Poe lo soffrì in nord America; Verlaine a Parigi e in Spagna, sono molti gli spiriti di artisti che non si adattarono alla torbida stupidità dell’ambiente circostante. È l’idea dell’imbecille sensato, valga l’orribile paradosso.
E che cosa avrebbe dovuto fare di più Verlaine secondo l’imbecille discreto, l’imbecille metodico, l’imbecille del senso comune? Quasi dieci volumi incomparabili, unici, scritti dal vecchio poeta maledetto nei caffè, nelle taverne, forse nei suoi lunghi periodi in ospedale che il Pauvre Lelian definiva il suo palazzo d’inverno. Il mantello da mendicante di Verlaine è oggi la bandiera della Francia spirituale. Unto dalla gloria. Vetta ricoperta d'oro dall’immortalità.
Queste glorie postume sono solitamente sarcastiche. Servono per arricchire l’editore; più amaro al contrario che il poeta abbia trascorso una vita disastrosa. È l’eterna tragicommedia lacerante.
Verlaine aveva una sete fatale che non si saziava mai… Fu forse per questo un originalissimo ed elevato poeta? Pedro Luis de Gálvez crede di sì e forse ha ragione questo ammirevole ingegno, questo eccellente poeta, odiato, disdegnato, assurdo, fantastico, che girovaga per le strade, ubriaco e triste, all’assalto di poche monete di rame roso, in questo miserabile paese di spiccioli. Pedro Luis porta una fatalità misteriosa sulla sua testa.
Non esiste poeta che, come Verlaine, sia stato unto dalla grazia lirica. Possedeva un’emozione unica e una magia particolare nell’incastonare le parole in armoniose collane di divine sfumature crepuscolari. Si può dire, senza iperbole, che fu uno stregone delle rime, delle ineffabili parole musicali, lì versava la sua anima mistica e pagana, fervida, peccatrice, universale. Povero Verlaine, mendicante, ubriaco e solitario! Di quale siderale armonia era ricolmo il tuo triste cuore, simile ad un vermicaio di peccati mortali?
Quale enorme catastrofe dell’anima generò in te quella grande sete, mostruosa e suicida? Una fascinosa sirena cantava nel fondo del bicchiere e tu non volevi sentire altro che la voce avvelenata della funesta Lorelei. E lì ti aspettava la Morte, la marionetta scarna, tutta biancore e piroette, come la Colombina delle tue Fêtes Galantes.

Colombine rêve surprise
d'écouter un cœur dans la brise
et de sentir dans son cœur voix.

Anche tu sentivi voci miracolose nel cuore quando scolpivi i tuoi versi con la penna calata nel piccolo e orrido calamaio del caffè bohemien. Oh, povero, maledetto e solitario! Al tuo fianco passava il trionfo della città, sirena di Lutezia, folle, senza un sorriso affettuoso per il divino poeta che con un umorismo capace di gelare le ossa chiamava l’ospedale il suo palazzo d’inverno, del tremendo inverno parigino. Forse il genio è la compensazione della miseria e della disgrazia,

que ser feliz y artista no lo permite Dios,

come, con felice e amara lucidità, ha scritto Manuel Machado. Essere un grande poeta equivale, ad essere un grande sventurato. Mercurio conserva l’oro nella cassa del suo retrobottega. L’amore delle donne belle, l’ammirazione dei più è in Spagna per quei fantocci commoventi vestiti d’oro che sanno sorridere quando la Morte gli accarezza le frange. Forse arriva la gloria per gli artisti… ma dopo morti. E’ un crudele scherzo del Destino.
Calice di verde e velenoso liquore, dove la sirena del genio seppe cantare per Verlaine! Forse nel fondo del bicchiere sta il dolce talismano che incanta la vita! Ebbri d’amore, di virtù o di vino. Attenti a restare sempre ebbri, disse il tragico Baudelaire nel sentire l’enorme vuoto della sua esistenza, che fu celebrata… solo dopo, quando una vita nera e una morte da cani lo lanciarono verso l’eternità come uno straccio molto glorioso, ma altrettanto frantumato e ricolmo di dolore.

Emilio Carrère "La copa de Verlaine", Madrid 1918
(Verlaine visto attraverso gli occhi e la passione decadente di Emilio Carrère).

Traduzione a cura di Maria pina Iannuzzi
mariapina_iannuzzi@tiscali.it

 


"Chi rappresenta il popolo sovrano" di Nadia Urbinati - da Salvatore Armando Santoro

Chi rappresenta il popolo sovrano
di Nadia Urbinati
in “la Repubblica” del 26 ottobre 2010
Pubblichiamo parte dell'introduzione del libro Democrazia rappresentativa di Nadia Urbinati, in
uscita in questi giorni.
Sebbene Atene sia la pietra di paragone classica delle nostre riflessioni sulla democrazia, l'idea che
la rappresentanza sia antitetica alla democrazia non trae origine da un parallelismo con Atene. Pur
ponendo l'accento sulla modernità della repubblica rappresentativa, per esempio, gli autori dei
Federalist Papers non sostenevano un'incompatibilità di principio tra democrazia antica e
rappresentanza; anzi, riconobbero perfino che ad Atene si faceva ricorso a un metodo di tipo
rappresentativo in alcuni ambiti statali. Analogamente, il democratico Thomas Paine basò la sua
difesa della democrazia sul concetto di continuità tra democrazia antica e moderna, nonostante la
seconda soltanto si presentasse in forma rappresentativa. Da dove deriva allora la teoria
dell'incompatibilità?
La tesi dell'incompatibilità (tra democrazia e rappresentanza) è figlia – figlia adottiva – della
moderna dottrina della sovranità. Le sue coordinate concettuali si trovano al cuore della teoria del
governo delineata da Montesquieu e da Rousseau, i primi teorici a sostenere esplicitamente (per
ragioni e con scopi diversi) l'esistenza di un'irriducibile tensione tra democrazia, sovranità e
rappresentanza. I due pensatori affrontarono i problemi dell'identità del sovrano e dell'esercizio del
potere sovrano in modo differente, giungendo tuttavia a conclusioni sorprendentemente simili.
Montesquieu, il mentore del governo liberale rappresentativo, scisse la rappresentanza dalla
democrazia, laddove Rousseau, il mentore della legislazione diretta quale principio della legittimità
politica, separò la rappresentanza dalla sovranità. Il primo sostenne che uno Stato in cui il popolo
delegava il proprio "diritto di sovranità" non potesse essere democratico e dovesse essere
classificato tra le specie di governi misti, invero un'aristocrazia eletta. Il secondo invece considerava
uno Stato siffatto non politico sin dalla sua origine e illegittimo, in quanto gli individui, perdendo il
potere di votare direttamente sulle leggi, perdevano la loro libertà politica: a meno che i cittadini
non fossero i legislatori, non esisteva qualcosa come la cittadinanza.
L'incompatibilità tra rappresentanza e democrazia è stata tradizionalmente derivata da un'idea di
democrazia che esclude a priori forme indirette di azione politica ed è arroccata in una concezione
volontaristica e decisionista della sovranità. Di qui la conclusione che la rappresentanza, pur
agevolando il processo decisionale politico negli Stati grandi, non sia un metodo democratico
perché sostituisce la volontà sovrana, la quale non può essere rappresentata, e fa sì che gli individui
siano politicamente attivi soltanto il giorno in cui si rendono schiavi, come dice Rousseau degli
inglesi nel Contratto sociale.
Non è dunque Atene l'origine della dottrina dell'incompatibilità. Sia i fautori che i critici
dell'incompatibilità tra rappresentanza e democrazia, allorché descrivono il governo rappresentativo
come una violazione dell'autonomia politica, presuppongono una sovranità diretta e anzi una
dottrina della sovranità intesa come volontà. Da questo punto di vista, l'idea secondo cui la
rappresentanza non necessariamente viola la presenza del popolo sembra quanto meno
irragionevole e la conclusione che la rappresentanza viola la democrazia appare prevedibile e
preordinata. Altrettanto prevedibile è l'idea che, nonostante il progresso democratico nel XIX e nel
XX secolo, una "democrazia rappresentata", ancorché praticabile tecnicamente, sia un ossimoro,
laddove la democrazia indiretta, pur essendo la norma, è impraticabile. Il mio intento è mettere in
discussione questa concezione della democrazia, condivisa dagli scettici sia della democrazia "pura"
che di quella "rappresentativa".
Il governo dei moderni non è definito dalle elezioni in sé, bensì dal rapporto tra partecipazione e
rappresentanza (tra società e Stato) che le elezioni istituiscono. Il fattore cruciale della rappresentanza è il rapporto tra il dentro e il fuori delle istituzioni statali creato dalle elezioni.

Comment



E' MORTO UCCIO ALOISI IL PADRE DELLA TARANTA SALENTINA - da Salvatore Armando Santoro

 E' MORTO UCCIO ALOISI

CON IMMENSO DOLORE ANNUNCIO A TUTTI CHE E' MORTO UCCIO ALOISI. MOLTI FORSE NON LO CONOSCONO MA ALOISI E' IL PADRE DELLA TARANTA SALENTINA, L'UOMO CHE PIU' DI TUTTI HA INTERPRETATO L'ANIMA POPOLARE DEL SALENTO.

HO AVUTO LA FORTUNA DI CONOSCERE UCCIO SUL PALCO DELLA FESTA DEI PUGLIESI NEL MONDO ORGANIZZATA DALL'AMICO ROBERTO CAZZATO A CASARANO IL 2 AGOSTO 2008. LUI COME CANTAUTORE IO COME POETA ABBIAMO CERCATO DI INTERPRETARE UN PEZZO DELL'ANIMA DEL SALENTO DI CUI MI SENTO FIGLIO AFFEZIONATO PER VIA DEI MIEI AVI NATI IN QUESTA TERRA SPLENDIDA E RICCA DI CULTURA.


2008-08-02-Casarano-Festa PugliMondo-Santoro.jpg

2 Agosto 2008 – Casarano (LE) – Mentre declamo la mia poesia “Salento” dal palco della Festa dei Pugliesi nel Mondo prima dell'intervento di Uccio Aloisi.

Aloisi.bmp

RIPRODUCO L'ARTICOLO PUBBLICATO IL 22 OTTOBRE 2010 DALLA "GAZZETTA DEL MEZZOGGIORNO" CHE RIPORTA LA NOTIZIA DELLA MORTE DI UCCIO ALOSI.

 

 

 

Lecce, Uccio Aloisi cantore della «pizzica»
è morto a 82 anni -
Video

 

  Risorse correlate

  1. LAGAZZETTA.TV: Video

Se n’è andato il cantore del Salento. Uccio Alosi da Cutrofiano ha posto ieri, con la sua scomparsa a 82 anni, la pietra angolare della musica popolare salentina. Uccio Aloisi era in ospedale, acciaccato da malanni che lo inseguivano da tempo. Nel pomeriggio un improvviso aggravamento che lo ha portato alla morte. Resta vivida l'immagine di quell'uomo dal volto tagliato con l'accetta: le radici di un albero maestoso che ha dato vita ad una folta chioma composta da una miriade di gruppi neo-folk, dai nipotini della taranta e dai megaconcerti ad uso e consumo del turismo e dell'esportazione di un marchio che si sovrappone a quello, territoriale, del Salento. 

Aloisi appare come il sopravvissuto di una intera generazione. Il suo gruppo storico è quello degli "Ucci". Suona con Bandello, morto nel 1998 a 81 anni, con Uccio Melissano, con Gigi Stifani, il celebrato violinista-barbiere-terapeuta di Nardò. Suona da sempre, sin da giovane, nascosto nella coltre che racchiude una miriade di feste di paese, libero nei campi e nella sagre affollate finché la riscoperta della musica popolare salentina non lo fa diventare una star. 

Rimane praticamente l'unico degli anziani ed è reliquia, guida ed esempio, tanto che è la ribalta mediatico-promozionale della Notte della Taranta a chiedergli un passaporto per entrare a maggior diritto nella tradizione. Che Uccio odia e ama: «La pizzica, poi n'altra pizzica, ancora na' pizzica», dice in un'intervista, «e la gente se rumpe li cujuni». Ma Uccio amava cantare Tito Schipa, gli stornelli, i canti di lavoro e d'amore: la profonda voce del cuore di una provincia generosa e passionale.

Uccio (Antonio) Aloisi era nato nel 1928 a Cutrofiano, un piccolo paese del Basso Salento e per tutta la vita ha lavorato la terra, estratto il tufo nelle cave, scavato pozzi di acqua sorgiva, fatto decine di altri mestieri. Aveva anche una voce di straordinaria qualità e sempre ha affiancato il lavoro al canto. Un giorno, insieme col suo caro amico Uccio Bandello, vicino di campo agricolo e morto nel 1998 a 81 anni, e Uccio Melissano, forma il suo primo gruppo di cantori, 'Li Uccì, e insieme propongono moltissime serate. Diventano così famosi che si esibiscono anche fuori dal loro Salento, in Italia e all’estero. 

Aloisi era l’unico sopravvissuto dei tre ed era considerato “il grande mattatore della pizzica e della melodia popolare salentina”. La sua professionalità e il suo carattere sono stati di esempio per molte generazioni di musicisti che si sono avvicinati alla musica popolare della terra del Salento. Nei suoi spettacoli eseguiva la musica tradizionale salentina, dagli stornelli (i suoi preferiti) ai canti d’amore, ai 'canti alla stisà, fino alla frenetica pizzica-pizzica. Nel corso della sua carriera artistica ha anche duettato con i 'Buena Vista Social Club'.

 

 


FORTUNATO VADALA': IL MITO DI GARIBALDI E LE MISTIFICAZIONI STORICHE - da Salvatore Armando Santoro

PER METTERE UNA PIETRA TOMBALE

SUL MITO DI "GARIBALDI"

Perché la storia non viene raccontata da un equipe di scrittori internazionali non dottrinali e non asserviti alle ideologie nazionalistiche? (S.A.Santoro)

 

Una uscita inaspettata ed importantissima segnalata dall' amico Gaetano Filangieri il quale ha espresso questo pensiero


"Si va addirittura oltre la visione tutto sommato limitata di Gramsci, anche se il punto di vista dell'articolista sembra essere prettamente "siciliano" e non "duosiciliano" (in tutto il profluvio descrittivo della tutt'altro che arretrata economia borbonica, dimentica persino di citare il polo siderurgico calabrese!).Ma comunque, mi pare in ogni caso un'uscita inaspettata ed importantissima".



di Alex Lattanzio da http://www.taxcala.es/


I festeggiamenti per il 200° anniversario della nascita di Giuseppe Garibaldi, con tutto lo stantio corteo di corifei e laudatori, non ha suscitato dibattiti né analisi sul processo di 'unificazione' dell'Italia. Questo evento non è diventato occasione per affrontare i nodi della storia italiana, o meglio italiane. Niente di niente.Neanche gli atenei o le accademie, né ricercatori e né docenti, hanno avuto il coraggio di affrontare, in modo serio e complessivo, la natura del processo storico italiano che va dall'Unità ad oggi.
Anzi, il 'General intellect' italiano, a ennesima dimostrazione della sua subalternità e del suo provincialismo, ha solo prodotto qualche raccolta di 'memorie' dei garibaldini, veri o presunti poco importa, spacciandola come lavoro storico e di analisi storica.
Nulla di più falso, poiché ogni vero storico sa che la memorialistica è altamente inaffidabile; e l'Italia è la patria delle 'memorie' scritte per secondi fini politico-personalistici. Inoltre, 'voler costruire' la storia patria raccogliendo le memorie di una parte sola, che ha una memoria... appunto 'parziale', ha più il sapore dell'opera di indottrinamento e della retorica, piuttosto che della onesta e disinteressata ricerca storica.
Capisco che in questi anni di disfacimento nazionale, di contestazione dell'Italia quale nazione unica, e dell'italianità quale sentimento 'patriottico', alcuni settori ideologicamente e strumentalmente legati al cosiddetto 'risorgimento' sentano il bisogno di ravvivare un 'patriottismo nazionale' che almeno salvaguardi la concezione, attualmente propagandata nelle scuole e nei media, che si ha della storia italiana. Soprattutto proprio quella riguardante il periodo della costituzione della sua statualità unitaria. Ma il fatto è che, con il riproporsi di schemi patriottardi e di affabulazioni devianti, non si renda proprio un buon servizio neanche alla storia dell'Italia.La figura di Giuseppe Garibaldi, in tal caso, è centrale; non in quanto super-uomo o eroe di uno o più mondi. Ma in quanto strumento di 'forze superiori', ma non sto parlando della Storia con la 'S maiuscola', ma più prosaicamente di mercati, risorse, capitali, commerci, banche e finanza, ecc. Insomma, delle regole e dinamiche dettate dai rapporti di forza tra potenze coloniali, tra i nascenti imperialismi, l'equilibrio tra potenze regionali e mondiali. E in questo contesto deve essere inserita, appunto, la figura di Garibaldi. Lasciamo agli affabulatori e agli annebbianti i raccontini sull''eroe dei due mondi' e sul 'Cincinnato di Caprera'.Partiamo, quindi, dall'analizzare il ruolo e la posizione dell'obiettivo principe della più notoria spedizione dell'avventuriero nizzardo: la Sicilia.
La Sicilia, granaio e giardino del Regno di Napoli (o delle Due Sicilie), oltre ad avere una economia agricola abbastanza sviluppata, almeno nella sua parte orientale, ovvero una agrumicoltura sostenuta e avanzata, necessaria ad affrontare il mercato internazionale, sbocco principale di tale tipo di coltura; possedeva una forte marineria, assieme a quella di Napoli, tanto da essere stata una nave siciliana, la prima ad inaugurare una linea diretta con New York e gli Stati Uniti d'America. Marineria avanzata per sostenere una avanzata produzione agrumicola destinata al commercio estero, come si è appena detto. Capitalismo, altro che gramsciana 'arretratezza feudale'. Ma il fiore all'occhiello dell'economia siciliana era rappresentata da una risorsa strategica, all'epoca, ovvero lo zolfo. Lo zolfo e i prodotti solfiferi, erano estremamente necessari per il nascente processo di industrializzazione. Lo zolfo veniva utilizzato per la produzione dell'acciaio, per la preparazione di sostanze chimiche, come conservanti, esplosivi, fertilizzanti; era insomma il ubrificante del motore dell'imperialismo, soprattutto di quello inglese. Con la rivoluzione nella tecnologia navale, ovvero la nascita della corazzata, e la diffusione delle ferrovie in Europa, e non solo; ne fanno montare la domanda e, quindi, la necessità di sempre maggiori quantità di acciaio, ferro e ghisa. Quindi i processi produttivi connessi, richiedono sempre più ampie quantità di zolfo; cosi come la richiedono l'economia moderna tutta, industriale e commerciale. Tipo quella dell'Impero Britannico. La Sicilia, alla luce dei mutamenti epocali che si vivevano alla metà dell'800, diventa un importante obiettivo strategico, un asset geo-politicamente e geo-economicamente cruciale. Difatti l'Isola possedeva 400 miniere di zolfo che, all'epoca, coprivano circa il 90% della produzione mondiale di zolfo e prodotti affini.Come poteva, l'Isola, essere ignorata dai centri strategici dell''Impero di Sua Maestà'? Come potevano l'Ammiragliato e la City trascurare la posizione della Sicilia, al centro geografico del Mediterraneo, proprio mentre si stava lavorando per realizzare il Canale di Suez? La nuova via sarebbe divenuta l'arteria principale dei traffici commerciali e marittimi dell'Impero Britannico.
Come potevano ignorare tutto ciò i Premier e i Lord, gli imperialisti conservatori e gli imperialisti liberali, i massoni e i missionari d'Albione? Come? E come potevano dimenticare che, all'epoca, il Regno di Napoli e le marinerie di Sicilia e della Campania, marinerie mediterranee, fossero dei temibili concorrenti per la flotta commerciale inglese? Come potevano? Il 'General Intellect' dell'imperialismo inglese, il maggiore dell'epoca, non poteva certo ignorare e trascurare simili fattori strategici. Loro no. Semmai a ignorarlo è stato tutto il circo italidiota dei laudatori del Peppino longochiomato e barbuto. Tutti i raccoglitori di cimeli garibaldineschi, più o meno genuini, non hanno mai avuto il cervello (il cervello appunto!) di capire e studiare questi 'trascurabili' elementi. La Sicilia è terra di schiavi e di africani, barbara e senza storia, non vale certo un libro che ne spieghi anche solo il valore materiale. Così vuole la vulgata dei nostrani storici accademici; o di venete 'storiche' contemporanee che, invece delle vicende dell'assolata terra triangolata, preferiscono dedicarsi alle memorie della masnada di mercenari vestiti delle rosse divise destinate, non a caso, agli operai del mattatoio di Montevideo. Tralasciando la biografia e gli interessi dei fratelli Rubattino, che attuarono quella vera e propria 'False Flag Operation' detta 'Spedizione dei Mille', giova ricordare che Garibaldi, prima di partire da Quarto, era stato convocato presso la Loggia 'Alma Mater' di Londra. Vi fu una festa pubblica, di massa, che lo accolse a Londra e lo accompagnò fino alla sede centrale della massoneria anglo-scozzese. 'La più grande pagliacciata a cui abbia mai assistito' scrisse un testimone diretto dell'evento. Un tal Karl Marx. Giuseppe Garibaldi venne scelto da Londra, poiché si era già reso utile alla causa dell'impero britannico. In America Latina, quando gli inglesi favorirono la secessione di Montevideo dall'impero brasiliano, e la conseguente guerra tra Brasile e Uruguay, Garibaldi venne assoldato per svolgere il ruolo di 'raider', ovvero incursore nelle retrovie dell'esercito brasiliano. Il suo compito fu di sconvolgere l'economia dei territori nemici devastando i villaggi, bruciando i raccolti e razziando il bestiame. Morti e mutilati tra donne e bambini abbondarono, sotto i colpi dei fucili e dei machete dei suoi uomini. Il compito svolto da Garibaldi rientrava nella politica di intervento coloniale inglese nel continente Latinoamericano; la nascita dell'Uruguay rientrava nel processo di controllo e consolidamento del flusso commerciale e finanziario di Londra verso e da il bacino del Rio de la Plata; la regione economicamente piùinteressante per la City. Escludere l'impero brasiliano dalla regione, era una carta strategica da giocare, perciò Londra, tramite anche Garibaldi, favorì la nascita dell'Uruguay. La borghesia compradora di Montevideo era legata da mille vincoli con l'impero inglese. Ivi Garibaldi svolse sufficientemente bene il suo compito. Divenne un 'bravo' comandante militare, solo perché si trovò di fronte i battaglioni brasiliani costituiti, per lo più, da schiavi neri armati di picche. Facile averne ragione, se si disponeva della potenza di fuoco necessaria, che fu graziosamente concessa dalla regina Vittoria.*L'eroe dei due mondi era stato richiamato a Londra, distogliendolo dal suo ameno lavoro: il trasporto di coolies cinesi, ovvero operai non salariati, da Hong Kong alla California. La carne cinese era richiesta dal capitale statunitense per costruire, a buon prezzo, le ferrovie della West Coast. Garibaldi si prodigava nel fornire l''emancipazione' semischiavista agli infelici cinesi, in cambio di congrua remunerazione dai suoi presunti ammiratori yankee.**
Colui che richiese l'intervento di Garibaldi, in Sicilia, effettivamente fu un siciliano, Francesco Crispi. Egli venne inviato a Londra, presso i suoi fratelli di loggia, per dare l'allarme al gran capitale inglese: Napoli stava trattando con una azienda francese per avviare un programma per meccanizzare, almeno in parte, le miniere e la produzione dello zolfo. Il progettato processo di modernizzazione della produzione mineraria siciliana, avrebbe alleviato il popolo siciliano dalla piaga del lavoro minorile semischiavistico delle miniere di zolfo. Ma i baroni proprietari delle miniere, stante l'alto margine di profitto ricavato dal lavoro non retribuito, e timorosi che l'interventismo economico della 'arretrata amministrazione borbonica', potesse sottrarre loro il controllo dell'oro rosso, decisero di chiedere l'intervento britannico, allarmando Londra sul destino delle miniere di zolfo. Non fosse mai che lo stolto Luigi Napoleone potesse controllare il 90% di una materia prima necessaria alle macchine e alle fornaci del capitale imperiale inglese. Tutto ciò portò alla chiamata alle armi del loro 'eroe dei due mondi'. E i 'carusi' delle miniere solfifere devono ringraziare Garibaldi, e i suoi amici anglo-piemontesi, se la loro condizione semischiavista si è protratta fino agli anni '50 del secolo scorso. Le due navi della Rubattino, della 'Spedizione dei Mille', arrivarono a Marsala l'11 maggio 1860. Ad attenderli non vi erano unità della marina napoletana o una compagnia del corpo d'armata borbonico, forte di 10000 uomini, stanziata in Sicilia e comandata dal Generale Lanti. No.
In compenso era presente una squadra della Royal Navy, posta nella rada di Marsala, a vigilare affinché tutto andasse come previsto. I 1089 garibaldini, in realtà, erano solo l'avanguardia del vero corpo d'invasione, una armata anglo-piemontese di 20000 soldati, per lo più mercenari, che attuarono, già allora, la tattica di eliminare qualsiasi segno di riconoscimento delle proprie forze armate. Infatti il corpo era costituito, in maggioranza, da ex zuavi francesi che avevano appena 'esportato' la civiltà nei villaggi dell'Algeria e sui monti della Kabilya. Inoltre, erano presenti alcune migliaia di soldati e carabinieri piemontesi, momentaneamente posti in 'congedo', e riarruolati come 'volontari' nella missione d'invasione. Eppoi c'erano i veri e propri volontari/mercenari, finanziati per lo più dall'aristocrazia e dalla massoneria inglesi.Il primo scontro a fuoco, tra garibaldini e guarnigione borbonica, si risolse ufficialmente nella sconfitta di quest'ultima. Fatto sta che nella breve battaglia di Calatafimi, a fronte delle perdite dell'esercito napoletano, che ebbe una mezza dozzina di caduti, i garibaldini vengono letteralmente sbaragliati, subendo circa 100 tra morti e feriti. In realtà, nella mitizzata battaglia di Calatafimi, i soldati napoletani che cozzarono con l'avventuriero Garibaldi dovettero abbandonare il campo, poiché il comando di Palermo aveva loro negato l'invio di rifornimenti, soprattutto di munizioni, costringendo la guarnigione borbonica non solo a smorzare l'impeto con cui affrontarono i garibaldini, ma anche ad abbandonare il terreno, quindi, lasciando libero Garibaldi nel proseguire l'avanzata su Palermo.A Palermo, dopo la scaramuccia presso 'Ponte Ammiraglio', nell'allora periferia della capitale siciliana, il comandante della guarnigione borbonica decise di consegnare la città. Contribuì alla decisione, probabilmente, la consegna da parte inglese di un forziere carico di piastre d'oro turche. La moneta franca del Mediterraneo.L'avanzata dei garibaldini, rincalzati dal corpo d'invasione che li seguiva, incontrò un ostacolo quasi insormontabile presso Milazzo. Qui la guarnigione napoletana impose un pesante pedaggio ai volontari di Garibaldi. Infatti la battaglia di Milazzo ebbe un risultato, per Garibaldi, peggiore di quella di Calatafimi. A fronte dei 150 morti tra i napoletani, le 'camicie rosse' subirono ben 800 caduti in azione. La guarnigione napoletana si ritirò, in buon ordine e con l'onore delle armi da parte garibaldina! Ma solo quando, all'orizzonte sul mare, si profilò una squadra navale anglo-statunitense, con a bordo una parte del vero e proprio corpo d'invasione mercenario. Corpo che fu fatto sbarcare alle spalle della guarnigione nemica di Milazzo.Va sottolineato che i vertici della marina borbonica, come quelli dell'esercito napoletano, erano stati corrotti con abbondanti quantità di oro turco e di prebende promesse nel futuro regno unito sabaudo.
Così si spiega il comportamento della marina napoletana, che alla vigilia dello sbarco di Garibaldi, sequestrò una nave statunitense carica di non meglio identificati 'soldati' (i notori mercenari), ma che subito dopo la rilasciò. Così come, nello stretto di Messina, la squadra napoletana evitò di ostacolare, ai garibaldini, il passaggio del braccio di mare, permettendo a Garibaldi e a Bixio di sbarcare sulla penisola italiana. Da lì fu una corsa fino all'entrata 'trionfale' a Napoli, dove Garibaldi fece subito assaggiare il nuovo ordine savoiardo: fece sparare sugli operai di Pietrarsa, poiché si opposero allo smantellamento delle officine metalmeccaniche e siderurgiche fatte costruire dall''arretrata' amministrazione borbonica. Certo, il regno delle Due Sicilie era fu reame particolarmente limitato, almeno sul piano della politica civica, ma nulla di eccezionale riguardo al resto dei regni italiani. Di certo fu che la monarchia borbonica, dopo il disastro della repressione antiborghese della rivoluzione partenopea del 1799, avviò una politica che permise il prosperare, nell'ambito della proprio apparato amministrativo e di governo, degli elementi ottusi, malfidati e corrotti. Condizione necessaria per poter perdere, in modo catastrofico, la più piccola delle guerre.In seguito ci fu la battaglia del Volturno, già perduta dai borbonici, poiché presi tra due fuochi: i mercenari di Garibaldi a sud e l'esercito piemontese a nord. E quindi l'assedio di Gaeta e Ancona, e poi la guerra civile nota come 'Guerra al Brigantaggio'. Una guerra che costò, forse, 100000 vittime. Prezzo da mettere in relazione con i 4000 morti, in totale, delle tre Guerre d'Indipendenza italiane. Solo tale cifra descrive la natura reale del processo di unificazione italiana.La Sicilia, in seguito, venne annessa con un plebiscito farsa***; poi nel 1866 scoppiò, a Palermo, la cosiddetta 'Rivolta del Sette e mezzo', che fu domata tramite il bombardamento dal mare della capitale siciliana. Bombardamento effettuato dalla Regia Marina che così, uccidendo qualche migliaio di palermitani in rivolta o innocenti, si 'riscattò' dalla sconfitta di Lissa, subìta qualche settimana prima e da cui stava ritornando. Subito dopo esplose, a Messina, una catastrofica epidemia di colera, la cui dinamica stranamente assomigliava alla guerra batteriologica condotta dagli yankees contro gli indiani nativi d'America.
Migliaia e migliaia di morti in Sicilia.Tralasciamo di spiegare il saccheggio delle banche siciliane, che assieme a quelle di Napoli, rimpinguarono le tasche di Bomprini e di altri speculatori tosco-padani, ammanicati con le camarille di Rattazzi e Sella; la distruzione delle marineria siciliana; lo stato di abbandono della Sicilia per almeno i successivi 40 anni****; la feroce repressione dei Fasci dei Lavoratori siciliani; l'emigrazione epocale che ne scaturì. Infine un novecento siciliano tutto da riscrivere, dall'ammutinamento dei battaglioni siciliani a Caporetto alle vicende del bandito Giuliano, uomo del battaglione Vega della X.ma Mas, che fu al servizio degli USA e del sionismo; per arrivare alla vicenda del cosiddetto 'Milazzismo' e a una certa professionalizzazione dell''antimafia' (che va a braccetto con quella di certo 'antifascismo') dei giorni nostri.Garibaldi, una volta sistematosi a Caprera, aveva capito che la Sicilia e il Mezzogiorno d'Italia, non gli avrebbero perdonato ciò che gli aveva fatto.
Note:
*Giova ricordare che l'impero inglese, alla metà del XIX.mo secolo, fu impegnato in una serie di guerre contro determinati stati (Regno delle Due Sicilie, Paraguay e gli stessi USA), che avevano deciso di seguire uno sviluppo autocentrato, sviluppando l'industria locale e rafforzando la propria agricoltura e il proprio commercio tramite l'applicazione dei dazi. Ciò avrebbe permesso lo sviluppo economico, pur restando al di fuori dell'influenza bancario-finanziaria e, quindi, politica di Londra. L'impero britannico reagì, a tali comportamenti, creando operazioni tipo 'Falsa Bandiera'. In Italia meridionale con Garibaldi e la sua 'spedizione'. Negli USA reclutando gli 'abolizionisti' estremisti di John Walker, i quali, nel 1858, prima di iniziare una loro propria 'spedizione' su Harper's Ferry, dove vi era il maggiore arsenale statunitense, vennero addestrati da un misterioso ufficiale inglese che si faceva chiamare Forbes. Egli, poco prima della fallimentare 'spedizione', scomparve nel nulla. Il Paraguay, durante gli anni della guerra civile statunitense, venne a sua volta aggredito da una coalizione di stati latinoamericani chiaramente legati agli interessi britannici: Uruguay, Argentina e un Brasile addomesticato. Questa guerra si risolse con la distruzione, fisica, del Paraguay e della sua popolazione maschile. Alla fine si ebbe un rapporto di otto donne per ogni uomo.
**C'è chi va blaterando di un Garibaldi bramato da Abramo Lincoln, presidente degli USA, durante la Guerra Civile statunitense. Secondo la leggenda, Washington cercava un abile condottiero, un Garibaldi appunto, che dirigesse l'Armata del Potomac che si trovava in serie difficoltà nell'affrontare la ben più smilza 'Armata della Virginia' guidata dal grande Generale Robert E. Lee. Della presunta richiesta non ci sono in giro che voci e illazioni, nulla di più. Eppoi, perché mai Lincoln doveva affidare il suo esercito ad un avventuriero che non ha mai diretto che qualche centinaio di sbandati? I bravi generali nordisti non scarseggiavano: Halleck, Sherman, Grant, Sheridan, ecc. Insomma, il solito provincialismo incolto e fanfarone italico con cui s'insegna la storia nelle nostre università!
***Si trattò della massima dimostrazione di malafede e inganno nei confronti dei contemporanei e dei posteri. Il plebiscito di svolse nelle seguente modalità: due schede, una con un NO e l'altra con un SI stampati sopra; chi votava NO doveva mettere la relativa scheda in una determinata urna, chi votava per il SI, doveva mettere, a sua volta, la relativa scheda su un'altra urna. Potete capire come venisse 'tutelata', in quel modo, il diritto alla libera espressione del voto. E con tanto di soldati piemontesi presenti nei seggi elettorali! 667 furono i siciliani che votarono NO al plebiscito. Non c'è bisogno di dire che, subito dopo la 'consultazione', tutti costoro dovettero abbandonare la loro terra.


****Il primo traghetto sullo stretto di Messina venne inaugurato nel 1899!
da www.taxcala.es

 


Il Parco Minerario delle Colline Metallifere dichiarato dall'Unesco patrimonio dell'umanità - da Salvatore Armando Santoro

IL PARCO MINERARIO DELLE COLLINE METALLIFERE DICHIARATO DALL'UNESCO PATRIMONIO DELL'UMANITA'

Ho il piacere di comunicare a tutti gli amici poeti e scrittori questo ulteriore riconoscimento internazionale al territorio che ospita il Bando Letterario di Poesia e Narrativa Città di Montieri.

Con questa iniziativa Boccheggiano diventa anche centro propulsivo di Cultura e ci auguriamo di poter onorare questo riconoscimento con delle iniziative culturali che facciano riscoprire l'antica cultura italiana del nostro comune, che custodisce due importanti documenti del '200 - la "Guaita di Travale", 1159, ed il "Breve di Montieri", 1258 - che potrebbero diventare oggetto per ulteriori approfondimenti sulla nascita della lingua "volgare" in Toscana.

Ma Boccheggiano rappresenta anche un centro di importanza straordinaria per le occasioni che offre sotto l'aspetto turistico, dal momento che il paese si pone al centro di interessanti escursioni artistico e culturali, dalle coste alle maggiori città d'arte della Toscana, senza dimenticare le grandi necropoli etrusche di Populonia, Vetulonia e Roselle che distano meno di un'ora dal nostro antico Borgo.

Salvatore Armando Santoro - Presidente del Circolo Mario Luzi

 

 

Le Colline Metallifere conquistano l’Unesco

Obiettivo centrato: il Tuscan Mining Geopark entra a far parte della rete europea dei geoparchi; Marras: «risultato di grandissimo rilievo»

Grosseto - Il Parco delle Colline Metallifere ha vinto la sua sfida più importante. Con un giorno di anticipo è arrivata l’attesa comunicazione della commissione di valutazione: il Tuscan Mining Geopark è entrato a far parte della rete europea dei geoparchi Unesco.

A ricevere la comunicazione è stata la delegazione maremmana presente a Mitilene in Grecia e formata dal presidente della provincia Leonardo Marras, dal presidente del Parco Luca Agresti, dal sindaco di Massa Marittima Lidia Bai e dal sindaco di Montieri Marcello Giuntini.

L’area e i presidi industriali del Parco saranno inseriti nel network europeo con il nome di “Tuscan Mining Geopark”. La comunicazione è stata fatta alla conclusione della sessione del Comitato tecnico scientifico che ha analizzato le diverse candidature, nel contesto della “IX Conferenza europea dei geoparchi”.

Da sinistra: Marcello Giuntini (Sindaco di Montieri), Lida Bai (Sindaco di Massa Marittima), Leonardo Marras (Presidente della Provincia di Grosseto) e Luca Agresti (Presidente del Parco delle Colline Metallifere)

Obiettivo centrato: sopra la delegazione maremmana presente a Mitilene in Grecia dove è stato comunicato l’ingresso del Parco delle Colline Metallifere nella rete europea dei geoparchi Unesco; da sinistra Marcello Giuntini, Lidia Bai, Leonardo Marras e Luca Agresti

«Si tratta – sottolinea il presidente della Provincia, Leonardo Marras – di un grandissimo risultato per tutto il nostro territorio, sia per le difficoltà oggettive in cui è maturato, sia per il rigore dell’inchiesta che è stata alla base di questo riconoscimento. Con l’ingresso nella rete europea dei geoparchi tutelati dall’Unesco, si aprono nuove prospettive per l’attrazione di flussi turistici di fascia medio alta, che si orientano sulle destinazioni in base a interessi scientifici, culturali e naturalistici. Per sviluppare fino in fondo questa vocazione vanno a questo punto risolti i problemi di assetto istituzionale dell’ente di gestione ed occorre concludere il programma degli investimenti previsto dal master plan».

Molto soddisfatto il neo insediato presidente del Parco, Luca Agresti: «il Parco ha ottenuto questo riconoscimento in virtù di un lavoro sedimentato sul territorio nel corso degli anni, per il quale ringrazio chi mi ha preceduto e la struttura tecnica e amministrativa. Il mio impegno è quello di consolidare questa realtà, per cogliere ogni opportunità di crescita economica e culturale che è in grado di alimentare».

Il riconoscimento ha poi un valore particolare per i sindaci delle Colline Metallifere. «Per le nostre comunità – commentano Lidia Bai e Marcello Giuntini – si tratta di una doppia vittoria, perché parallelamente alle nuove prospettive che si aprono in termini turistici, l’attribuzione del titolo di Tuscan Mining Geopark è un riconoscimento al patrimonio culturale e al valore di una storia industriale che stanno alla base della nostra identità e memoria collettiva».


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Salvatore Armando Santoro - Presidente

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