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FINALISTI E TESTI BANDO LETTERARIO INTERNAZIONALE VERETUM 2016 - da Salvatore Armando Santoro

2° BANDO LETTERARIO INTERNAZIONALE 2016

DI POESIA, NARRATIVA E SAGGISTICA VERETUM

 

ORGANIZZATO DALLA PROLOCO DI PATU'

CON LA COLLABORAZIONE E DIREZIONE TECNICA DEL CIRCOLO

CULTURALE “MARIO LUZI” DI BOCCHEGGIANO-MONTIERI (GR)

e con il patrocinio della Regione Puglia, della Provincia di Lecce,

del Comune di Patù (Lecce) e del Comune di Montieri (Grosseto)

 

GRADUATORIA FINALE 2016

 

 

SEZIONE POESIA

 

1° Classificato – Rita Stanzione di Roccapiemonte (Salerno) con “ Sottinteso, si sogna, si sogna ancora”

 

Com'è strano sentire

la verità dei nomi

in una stanza asciutta

vagare

Sotto la lampada

il profilo con accenti rossi

dire "ti sopravvivo"

senza nessun abbellimento

Orde di parole

le mie compagne scritte

corollario d’altra poesia

da volare più in là

della paura dei davanzali

del passo feroce che non lascia varco

Sulle soglie

ti salvo -non ti salvo

t’amo -come non t’amo

Ti comprendo e sempre

dal cuore facile non in vendita

(sicuro...) se un limo scuro

placidamente prende le caviglie

Ma qui ho peso incorporeo

recido anche lo sguardo

taglio il ponte e il dazio

mi sollevo

dal tuo ipotetico dolore da esibire

in un taglio breve

di sorriso

 

 

2° Classificato – Pina Petracca di Surano (Lecce) con “Nasra”

 

Anche il cielo oggi

si vergogna.

Poco più di trent’anni

aveva Nasra ,

come Ali Asaan, 

ed altri negli anni,

e nascosto nei sandali

un bacio salato

il suo dono

al primo tocco

di Finibus Terrae.

Tutto il suo bagaglio.

Il resto era un morso

a denti stretti

a un fazzoletto bianco

lasciato a Mogadiscio .

Le chiuse gli occhi

a Leuca

un fazzoletto nero

nell’alba salentina

sopita ancora

tra coperte di capperi

e di timo.

 

Le lacrime

si fecero marea

d’ Adriatico , di Jonio

d’ogni brezza.

Alta fino al cielo.

Rosso fuoco

stasera

di vergogna .

 

(naufragio di migranti – Leuca 11/01/2016 )

 

 

3° Classificato – Enrico Calenda di Venezia con “Come un lichene”

 

S’aggrappa la vita si afferra

Mentre si staglia, si coglie

Mentre si fugge e poi si atterra

Inconscia dell’energia che spinge

Contro il gran nulla che stringe

Come un lichene nella roccia che ghiaccia

Come dell’erba che il passo schiaccia

Dove si sboccia un fiorellino

Dove s’accampa un fior di campo

Poco più in là, lì vicino.

Astri spezzati nubi

Aurore sprigionate in alti cieli

Qual’ è la pista che ogni vita conquista

Ignara d’altro attonito vivo?

Quale coscienza dell’essere

Quale inconsapevole

Strazio del tuo arcano a venire?

 

 

4° Classificato Walter Cassiano di Monte Porzio Catone (RM) con “Come vivi?”

 

Vorrei sapere, padre,

come vivi

da quando la speranza

di sentire la tua voce

è vana

da quando i tuoi consigli

non guidano il mio cammino

da quando non posso più

poggiare su di te la gloria

che mi chiedevi in cambio

della vita che mi desti.

 

Vorrei sapere, padre,

come vivi

da quando una chiara luce

fiocamente uscì

per una porta verde

una casa si chiuse.

 

Vorrei sapere, padre,

come vivi.

 

 

5° Classificato Lorenzo Piccirillo di Pontinia (Latina) con “Bidone”

 

Tutto ha avuto inizio con l’Amo

mascherato dall’esca

è il giogo a innescare la trappola

per dare certezza alla tua cattura

Ma è stato inutile non hai abboccato

l’evidenza ostile non si difende si soffre

(non ho saputo imitare “il pescatore”)

Questo è «il quanto» ho saputo fare

dopo migliaia di giornate

e agguati a centinaia

Ti confesso con poco onore che ho pensato

al fuoco amico forzato

poi la decisione imparziale per l’inganno ordinario

ma non è bastato

Ora che anche il safari (un’ultima spiaggia)

ha le ore contate

sono stati sbranati i miei cani

e la bestia è scappata

Mi rimane la cicatrice lacerata da mostrarti

non avere paura di avvicinarti

prepara «la busta» trapuntala negli occhi

Guarda la mia carogna verrà battuta all’asta

aspetterò fiducioso la tua offerta.

 

 

Segnalazione Speciale e Menzione della Giuria – Carlo Simonelli di Berna (Svizzera) con “Un albero”

 

Mi bagna la pioggia
Goccia dopo goccia

L’acqua mi scende sul viso
Amara è salata come il mare 
Mi penetra un animo che ha 
Scordato il tempo 
Che si è arreso al dolore 
Che ha ceduto al superfluo  
Come l’albero, rimango attaccato 
Ai miei errori 
Le mie radici si nutrono del nulla 
E le mie foglie respirano i veleni del nostro tempo
Il tronco viene reciso 
Come una grande arteria pulsante
e riconosco il mio assassino
Sono io, mentre mi guardo allo specchio. 
Ma la pioggia, quella sei tu. 


 

 

Segnalazione speciale – Giancarlo Colella di Acquarica del Capo (Lecce) con “Terra d'amore”

 

Non sono padre non sono figlio

ma sono un oggi senza memoria

io sono un libro scritto a più mani

sono un erede di tanta storia.

 

 

Soria di fame storia di vinti

storia di umili e di dignità

storia di amori e di passioni

storia di vita e umanità.

 

Non sono padre non sono figlio

io sono erede di tanta gente

che ha dato tutto a piene mani

e in cambio ha avuto soltanto niente.

 

Io sono albero io sono frutto

di questa terra di sole e vento

che accoglie tutti a braccia aperte …..

terra d’amore … il mio Salento.

 

 

Segnalazione Speciale – Armando Bettozzi di Roma con “Don Matteo della rottamanza”

 

Sicuro e spavaldo sul bianco destriero

con l’arme che furon del Gran Cavaliere,

per niente colomba, piuttosto sparviero,

va senza l’aiuto del palafreniere.

 

Con spada a sinistra, con lancia alla destra

sperona il destriero su e giù per la giostra.

Attacca, e colpisce con mossa maestra,

che ardito e sprezzante a ognuno dimostra.

 

Con l’elmo di Scipio tien cinta la testa

e fende fendenti sia a destra che a manca

con spada nel pugno e la lancia ch’ha in resta.

Veloce ha la lingua e la mano ha mai stanca.

 

Il re che lo guarda seduto sul trono

fa cenni d’assenso, e plaude orgoglioso.

Ed alla duchessa del regno…”teutono”

s’inchina devoto, ma pure un po’ ombroso…

 

Là fuor de’ steccati c’è folla plaudente.

Prosopopeamente stravince il torneo.

Insieme, o da solo – poi dice alla gente -

io posso far tutto: io son come un…dèo!”.

 

Per chi vuol spuntargli la lancia o la spada

altre armi non usa se non la magia

di…quel caro augurio, che gli apre ogni strada:

gli fa: “Stai SERENO…!”- E ogn’intralcio…via!...

 

 

 

Menzione di Merito – Graziano Gismondi di Milano con “Alito di vento”

 

La liturgia della vita
prevede un percorso
spesso palese,
a volte nascosto.
Il cuore pretende,
ragione sottende,
col senno di poi
l'animo apprende.
Effimera essenza
dell’attimo umano,
un alito di vento
ciò che noi siamo.

 

 

Menzione di merito – Caterina Tagliani di Sellia Marina (Catanzaro) con “Cullata dalle onde”

 

Sembrava una carezza un dolce soffio,

 d’improvviso muta, in vento si trasforma,

il mare urla tutta la sua rabbia

sulla sponda la riversa, graffia la sabbia

 

trascina a lungo l’onda, spuma s’innalza

al cielo e poi ricade, stanca, mentre un’altra

la sovrasta, rotola, s’avvicina e precipita

sopra la riva dove lesta si  frantuma.

 

Urla il vento, scintille diamantine

si rincorrono inseguite dalla furia,  l’acqua

s’involve, trascina terra rubata dalla riva,

 

lo smeraldo ha lasciato all’orizzonte

dove un’altra tragedia si consuma.

 Improvviso il silenzio cala, profondo,

sull’eterno Oceano che ha dato vita al mondo

 

brulicante nel suo grande grembo,

di tesori antichi, sepolti e mai ridati,

di battaglie combattute contro i venti:

crociati e pirati or stanno insieme,

riposano fra mura di corallo e ammalianti sirene.

 

 

Menzione di merito – Ada Cancelli di Uggiano La Chiesa (Lecce) con “ Viuzze e vicoli”

 

Per vicoli e viuzze

mille volte corsi

tra cornicioni e balaustri

nella bocca pagliuzze.

 

Nel costruire il nido

della felicità. Tacque

ferita sulla spalla

l’ala della libertà.

 

Al grembo, io affidai

il seme dell’amore

Per annientare ogni

sorta di eco dolore.

 

Dovetti donare la

mia Vita. Per essere da

un Uomo capita

e non male nutrita.

 

D’attorno silenzio, sì

tace il mare. Scese

pace sul rosso stelo,

che tre giorni al mese

a me chiese le spese.

E Donna nacqui.

-L’hai mai rivista da quel dì?

-L’ho cercata ad ogni semaforo rosso

In attesa di svoltare a sinistra

Dalla parte del Cuore

Dalla parte del Sorriso

Sicuro di trovare le farfalle.

 

Radici fresche

Di memorie passate

Cieli bevono. Elogio Occhio.

Fugge al mare – La nuda vela.

 

 

Menzione di Merito – Vito Cassiano di Tricase (Lecce) con “Presagio”

 

Un presagio

vedo nello sbiadire dello sguardo

e nel fluido trascorrere delle sere

sotto l’algido neon ti rivedo

stilata dal tempo che sul volto

ha segnato tutto il tracciato

di una vita.

 

Sono queste incipienti

ancora tenui ma certe

del cammino che si apre,

rughe che mi disegnano

il tuo cuore tenero e palpitante,

ora che s’acquieta il desiderio

ed ogni amplesso

é come l’ ancorarsi del veliero

sotto il molo sferzato da maestro.

 

Diventerai diafana

come la carìta nelle pozze

d’acqua chiara salmastra

residui di tempeste

e vedrò di te l’anima

che di divina certezza si nutre.

 

E ancora mi darai a pascere

memorie di passioni e tenerezze

ora che solo a Dio appartieni

e di giorno in giorno

ti disfai nel suo amplesso.

 

 

 

Menzione di Merito e della Giuria – Maria Teresa Protopapa di Gallipoli (Lecce) con “Fragile”

 

Fu fragile,

o lo sarà per sempre

il pezzo d’infinito

racchiuso

tra due mani congiunte

come cipresso ai lati del viale.

Fragile e sola ,

come una parola,

rosa,

stesa al vento,

come lo sguardo rannicchiato

ai piedi dell’altare.

Capo chino,

che rasenta il pelo,

ai piedi della Croce.

D’infinito perse e si perse

il silenzio,

il di ghiaccio pensiero,

stanco e bagnato

unito al tuo.

Foglia secca,

spenta,

la mente,

priva di coraggio

e d’un sorso d’amore.

 

 

 

Menzione di merito – Chiarini Maria Ravenni di Firenze con “ Barconi”

 

Barconi senza volto

barconi di dolore

barconi d’occhi disperati

e labbra amare di sale

barconi che nella notte

forgiano le onde della speranza.

 

L’immondizia dei trafficanti

ci travolge indifferenti

ai viaggi della disperazione.

 

E poi campi,campi,

ma non di papaveri e grano,

discariche di corpi stipati

dietro ai cancelli

nei C.I.E. d’accoglienza.

 

E noi godiamo

di look griffati

vetture lussuose

tavole imbandite

alcove di seta.

Per Fido un collare di gemme

e neanche l’osso gettiamo.

 

Il Corno d'Africa muore

il sangue scorre

da Palmira a Mossul

i jihadisti sparano

sui nostri fratelli.

 

Lampedusa scoppia

la UE grida ad occhi chiusi:

non li vogliamo

quei musi sporchi

coperti di stracci

con le mani protese

ai semafori

che c’imbrattano

i vetri dell’auto

inoperosi, vagabondi

e ladri…”

 

I barconi ci cercano

dal mare urlano.

Apriamo le porte all’amore.

Perché ancora una volta

l’Italia chiamò”

e solo l’Italia chiamò.

 

 

Segnalazione a Giustina Ambrosini di Chioggia (Venezia) con “Siria”

 

L’uomo avanza

con il bimbo in braccio.

Testa reclinata, non si muove,

non piange, non abbraccia,

non respira.

Dondola la piccola mano

Inerte,

gli occhi chiusi, le labbra mute,

un fiore rosso tra i capelli,

quello che l’ha portato via,

quello che l’ha portato via-

L’uomo avanza

con il bimbo in braccio,

tra le rovine della città,

tra i fumi delle bombe

che hanno aperto crateri

nella terra,

crateri nel cuore

 

 

Segnalazione a Maria Teresa Manta di Aradeo (Lecce) con “ Forse”

 

Accenderò di astri luminosi

le mie buie notti, luna,

isserò bandiere di sogni

sul suolo dei miei desideri,

cavalcherò le tue irte rupi

e pregherò più forte

tra le fessure dei tuoi crepacci,

troverò nei tuoi mari ghiacciati

la fonte del mio quietarmi e

trasformerò in odorosi ruscelli

il fiume dei miei pianti,

le tue dune sabbiose inghiottiranno

il mio dolore,

i miei tormenti placherai ,

forse mi accenderai di speranze,

forse mi addormenterai

nella tua solitudine,

forse mi donerai la pace

o forse il nulla mi inghiottirà ….

 

 

 

Segnalazione a Francesco Galgani di Massa Marittima (Grosseto) con “Esperimenti europei su cavie umane”

 

Laboratorio greco
della dittatura finanziaria...
non c'è nulla di più bieco
dell'usura bancaria,

in cui sei caduto,
mentre rantoli morente,
per sperimentar l'aiuto
di chi ha il cuore assente.

Tanti soldi son girati,
ma al popolo nulla è dato,
son solo interessi privati
che Dignità e Rispetto...

hanno violentato!

 

 

PREMIO ALLA CULTURA, ED ALLA POESIA “Nel silenzio della violenza”,

DA PARTE DELLA PROLOCO DI PATU' (LE) E DEL CIRCOLO CULTURALE MARIO LUZI DI BOCCHEGGIANO-MONTIERI (GR) A GIOVANNI MONOPOLI DI TARANTO

PER IL SUO IMPEGNO RIVOLTO AL RILANCIO DELLA POESIA E DELLA LETTERATURA.

 

Tace il passo

nulla s’ode per i viali della vita

solo una solitaria tromba echeggia

nel pianto d’una antica musica

coll’animo che nel fragore sconquassa

e nel cuore oramai stanco… alloggia.

Nel silenzio della violenza

è lì che passa nei cieli senza voce,

lì dove l’anima la preghiera piange,

dove quel filo di rugiada sottile resta

su quelle gocce di memoria bagnate

alla ricerca della martoriata esistenza.

Tace il passo

il seme della speranza è ancor lontano

radica il timore ed è lungi a venire,

mentre tempesta indugia sulla ferita mano

con tragitti impolverati, lindi a divenire

per quel sogno ora ancora represso.

Nel silenzio della violenza

malinconico è il pervadere, recita dolorosa scena

nell’invaso dolore d’una mamma

nel pianto dirotto d’un bimbo…

l’uomo accecato è dall’odio… osceno.

Tace ancora il passo,

calpestato è nella dignità

coi fiori recisi dall’idiozia, dalla bestialità

nel silenzio della violenza… la visione

e nel canto perduto, sepolto

quel respiro ormai finito, nella polvere cessato.

 

 

 

MENZIONE SPECIALE DA PARTE DELLA PROLOCO DI PATU' (LE) E DEL CIRCOLO CULTURALE MARIO LUZI DI BOCCHEGGIANO-MONTIERI (GR) A Maria Cosi di Patù (Lecce) per la poesia “A Dante” tesa ad esaltare la figura del grande poeta fiorentino che ha dato lustro e splendore nel mondo alla letteratura italiana.

 

A DANTE

 

Salve! Sommo tra i Poeti

di tutta l’umana gente,

quanto saper adunasti

nella tua vasta mente!

 

Color che al saper sono votati,

riverenti a te volgono il ciglio,

maestro d’ogni scienza,

e dell’Italia illustre figlio.

 

Avversa sorte ti fe’ mendicare asilo,

per espiare quel fallo di fazione:

mangiasti l’amaro pane dell’esilio,

sperando venisse revocata la sanzione.

 

Vana si rivelò quella tua speme,

ahi, quanto tu soffristi, il ciel lo dica,

ti mise a dura prova quel dolore:

lontano dagli affetti e dalla gente amica.

 

Gode Firenze e di onor si cinge,

fiera d’averti offerto gentil cuna,

ma, ahimè, ancor se ne dolora

per non averti dato sepoltura.

 

Sol fiorentino, or non ti puoi nomare,

neppur toscano a noi potrà bastare:

sei italiano e di tutte le regioni:

irradi luce qual astro universale!

 

 

PREMIO DELLA PRESIDENZA DELLA PROLOCO DI PATU' (Lecce) ad Antonio Cosimo Grezio di Gemini (Lecce) per la poesia “San Gregorio” tesa a evocare le antiche vestigia di un territorio che è parte integrante della storia del Salento.

 

 

Per un attimo ho chiuso gli occhi

In questa dolce scogliera

 

Nell’abbandonarmi, meditavo al profumo dei pini

Ascoltavo la sua tacita presenza.

L’acqua del mare la vita,

La nostra esistenza a riposare,

Guardavo il colore del mare

Nelle diverse tonalità di suoni

Sinfonie d’amore io, le ascolto

Ti ho cercata, e sei con me

I suoi lievi movimenti segnano il tempo,

della vita.

 

Ho chiuso gli occhi,

Nel buio della mia esistenza

Sentivo ancor di più la presenza della vita.

Guardavo te come l’acqua l’essenza,

Ascoltavo il grido di un bambino

Per sua madre che cercava

L’acqua continuava ad accarezzare

Le sue dolci sponde

 

Nella baia di San Gregorio

Sulle scale dei Messapi,

tracce dei nostri antenati,

segni del tempo.

 

A risalire in alto

Predomina l’insenatura del vecchio porto

Ed è con me,

Il faro del tempo.

 

 

 

SEZIONE POESIA – Studenti

 

1° Classificato Sebastiano De Nuccio anni 11 di Patù (Lecce) con “ Sentimenti d'estate”

 

La scuola è finita,

iniziano i divertimenti

e i bambini son contenti.

 

Il mare si popola

di tanti visi

invasi da felicità e sorrisi.

 

Nelle case tornano

gli alunni,

in riposo

per un anno più difficoltoso,

un futuro da scoprire

le porte della vita

ancor da aprire.

 

 

Sezione Poesia in Vernacolo

 

1° Classificato – Armando Bettozzi di Roma – con “Er teatrino” (Dialetto romano).

 

Nella vita, e nel mondo in generale…Nella politica nostrana, in particolare…

 

Ma quante vòrte che me cià portato

mi’ padre ar Pincio a véde quer teatrino

de crete, pèzze, fili e fantasia…!

 

Restavo a bbocca operta ‘ntusiasmato

a stà a guardà e sentì ‘gni burattino;

ridevo e nun volevo annà più via.

 

Stàveno sempre a pìasse a bastonate

li burattini, e a queli malandrini

je dàveno ggiù…Càcchio! che sonàte!...

E je piaceva a granni e regazzini.

 

Calava er siparietto, e in quer momento

te ce sentivi proprio assai contento

che er pupazzetto bbòno aveva vinto:

mo’ ce lo so perché: perché era finto!

 

E invece, mo’, er teatrino ce lo fanno

pupazzi tutti griggi, in carne e ossa….

che de continuo sbajeno ogni mòssa

e ad ogni sbajo noi pagamo er danno,

ed è tarmente pieno de magagne,

che si uno ride, è…solo pe nun piagne.

 

Traduzione

Il teatrino

Ah, quante volte mi ci ha portato / mio padre al Pincio a vedere quel teatrino / di pupazzi di creta e stoffe e fili e fantasia! // Restavo entusiasmato a bocca aperta / a guardare e sentire ogni burattino; / ridevo e non volevo andare più via. // Si prendevano sempre a bastonate / i burattini, e a quelli cattivi / gliene davano di santa ragione…Accipicchia! che bastonate! E piaceva a grandi e a ragazzini.// Scendeva il siparietto, e in quel momento / ti ci sentivi proprio contento / che il pupazzetto buono aveva vinto: / ora lo so il perché: perché era finto! // E adesso invece il teatrino ce lo fanno / dei pupazzi tutti grigi in carne e ossa…/ che sbagliano continuamente ogni azione / e ad ogni sbaglio noi paghiamo il danno, / ed è talmente pieno di cose fatte male, / che se uno ride, è solo per non piangere.///

 

 

 

2° Classificato – Giancarlo Colella di Acquarica del Capo (Lecce) con “La creazzione incompiuta” (Dialetto Salentino).

 

Diu, ca era patrunu de lu munnu,

facennu nenti se rumpìu lu cazzu.

Nu giurnu disse: -E mo sulu ci fazzu?-.

Allora fice la notte cu lu giurnu.

 

-E menchia ci su bravu, disse sulu.

Giacchè me fazzu lu cielu cu lu mare.-

Dopu fice le chiante de chiantare:

la fava, lu paseddhu e lu pasulu.

 

Lu quartu giurnu fice sule e luna,

poi fice nu futtìu de pesci e ceddhi

ca valivane cchiui de na furtuna.

 

Cu nu picca de terra e na sputata

poi fice l’ommu; ma nu li piacìu.

-Pe osci basta, disse. Lu spicciu n’addha fiata.-

 

La creazione incompiuta

 

Dio, che era padrone del mondo,

facendo nulla si ruppe il cazzo.

Un giorno disse:-E adesso che faccio?-

Allora fece la notte col giorno.

 

-Caspita quanto sono bravo, disse da solo.

Giacchè mi faccio il cielo col mare.-

Dopo fece le piante da piantare:

la fava, il pisello e il fagiolo.

 

Il quarto giorno fece sole e luna,

poi fece una gran quantità di pesci e uccelli

che valevano più di una fortuna.

 

Con un po’ di terra ed uno sputo

poi fece l’uomo; ma non gli piacque.

-Per oggi basta, disse. Lo finisco un’altra volta.-

 

 

 

 

3° Classificato Gaetano Catalani di Ardore Marina (Reggio Cal.) con “Ma l'anima ti scianca” (Dialetto reggino jonico).

 

Resta ngiaciàtu nta nu spìculu du cori,

ma po’ n’addùri o nu ricordu e a cotraranza nesci

pemmu l’anima ti scianca.

Pàrunu fil’i sita ligati a nu crivu,

comu carizzi senza tempu ca u cori ti ncardìjanu.

E mi torn’a mmènti l’erba ca sonava chi labbra,

i carci a nu pallun’i pezza nto margiu da foresta,

u pani cardu e tri da matìna

e po’, ad arzata i suli, a curz’a Rrìggiu

pè nu cafè o Roof Garden.

M’i tegnu stritti o cori sti ricordi

e forzi nu jornu, nta na notti senz’a luna,

quand’i nenti cchjù mi mporta,

capisciu ca pè furtuna

sugnu ancora ccà chi guard’i stigli.

Na fotografia mi cumpari nte mani

e mi riviju cotraru, in jancu e niru,

mentri jocu chi cumpagni.

Mi guardu nto specchju e non mi ricanusciu,

sentu a vuci mia e non è cchjù a stissa,

mi venun’i brividi, ma sulu pè nu momentu,

guard’u mussu di me cani e u cori tremulìja,

allura sacciu c’a notti ndav’ancora mu veni

e arret’e nuvoli u suli allùci ancora.

 

Ma l’anima ti strappa

 

Rimane adagiato in un angolo del cuore,

ma poi un odore o un ricordo e la fanciullezza esce

per strapparti l’anima.

Sembrano fili di seta legati ad un setaccio,

come carezze senza tempo che il cuore ti riscaldano.

E mi torna in mente l’erba che suonavo con le labbra,

i calci ad un pallone di pezza nell’incolto della foresta,

il pane caldo alle tre del mattino

e poi all’alba la corsa a Reggio

per un caffè al Roof Garden.

Me li tengo stretti al cuore questi ricordi

e forse un giorno, in una notte senza la luna,

quando niente più m’importerà,

capirò che per fortuna

sono ancora qui a guardar le stelle.

Una fotografia mi compare fra le mani

e mi rivedo ragazzo, in bianco e nero,

mentre gioco con i compagni.

Mi guardo allo specchio e non mi riconosco,

ascolto la mia voce e non è più la stessa,

mi vengono i brividi, ma solo per un momento,

guardo il muso dei miei cani e il cuore trema,

allora so che la notte deve ancora arrivare

e dietro le nuvole il sole splende ancora.

 

 

 

Menzione di Merito – Francesco Calò di Lecce con “Lecce, città te cultura e amore” (Dialetto salentino)

 

Suntu leccese, pe mmie ndè uantu,

pe ttie cantu amore, pe nna terra

ca nascere m’ha bistu e criscere.

Moi omu maturu suntu,

comu pozzu, Lecce mia, cu nu tte amu.

Santu Ronzu miu, ca la pruteggi,

cullu chiantu all’ecchi te ticu,

ntra le manu toi, tienila sempre,

nun la lassare, te Tie aimu besegnu.

Tutti li paisi te lu mundu amu,

tutti pe mmie suntu tesori

ca sempre tegnu intru llu core,

ma tie, Lecce mia, te cultura a arte regina,

sì comu na mamma, e nun te lassu,

percè ntra bellezze e tristi mumenti

c’ha istu te la vita mia, m’ha tittu:

nun te lassu, qquai me ttrei, e sempre

tte pruteggu ogghiu, figghiu miu.

 

Lecce, città di cultura e amore

 

Son leccese, per me n’è vanto,

per te canto amore, per una terra

che nascere m’ha visto e crescere.

Ora uomo maturo sono,

come posso, Lecce mia, non amarti?

Santo Oronzo mio, che la proteggi,

col pianto all’occhi ti dico,

nelle mani Tue, tienla sempre,

non la lasciar, di Te abbiam bisogno.

Tutti i paesi del mondo amo,

tutti per me son tesori

che sempre ho intra llo core,

ma tu, Lecce mia, de cultura e arte Regina,

sei come una mamma, e non te lascio,

perché nelle bellezze e tristi momenti

che hai visto de mia vita, mai detto:

non te lascio, qua me trovi, e sempre

proteggerti voglio, figlio mio.

 

 

 

 

Segnalazione Speciale – Sabino Zaza di Corato (Bari) con “Cudde de la Lusce” (Dialetto barese)

 

Quanne faciaje alla scure e s'avvecenaje la notte

s'appecciajne lume,cannèle e cerotte.

Poje arrevò la lusce e s'appeccèrne re lambadine

e da tanne pure la sère devendaje accamme la matine.

All'inizie la corrènde se pagaje saupa poste

nan ze sciaje accamme e mò a fa la code alla Poste,

percè tanne case pe case,sciaje" Cudde"ca pertaje re bullìètte

e re fèmene quanne pagajne,assajne le solte ca tenajne ascunnute mbiètte. Na dì a "Cudde de la lusce" capetò na famigghje

ca accamme tande tenajne na morre de figghje

se sendaje chjange da dongatè criature c'assajne dalla case allanute,scalezate e pe u muorve o nase. Signò! Soche "Cudde de la lusce"chesse è la bullette de la corrènde

s'aprì la rèzze e assì na fèmene chjangenne pe na criature mbrazze e n'alte inde o vènde. Chisse sonde l'ulteme solte ca tènghe-magare vu nan me credite

tènghe mariteme cuccuate inde o liette pe la bronghite,

ca pe scì a fa inde a na dì do scernate se retrò tutte sedate

e fra mìèdece e speciarì ame remase senze chjù ne dequate.

Nan zacce chjù accamme agghja fa pe scì nanze

e fra ne picche se sgonfie pure la panze.

Le figghje ca tenghe sonde tutte mendidde

e nan chjangene percè fasce fridde

chjangene percè tènene fame e volene mangià

ma ghje nan tènghe chiù nudde da dà.

A sendì chedda poverèdde ca tremuènne le daje le solte pe avaje la recevute, a "Cudde de la lusce" se strengì u core-le venì de dalle na mane d'ajute.Tenitaville signò ve la paghe ghje la bullètte facite mangià chedd'alme de Deddì.E se ne scì cundènde.Forse senza èsse ne sande ne meracule u facì chedda dì.

 

QUELLO DELLA LUCE ( l'esattore )

Quando faceva buio e s'avvicinava la notte,s'accendavano lumi, candele e cerotti,poi arrivò la luce elettrica e d'allora anche la sera diventava come il mattino.All'inizio il consumo di corrente si pagava dalle proprie case perchè un addetto passava porta a porta a riscuotere le bollette. E le massaie per pagarle,tiravano i soldi che tenevano nascosti nel petto.Un giorno a quello della luce capitò una famiglia che come tante aveva tanti figli,si sentiva piangère da ogni parte,bambini che uscivano scalzi e con li muco al naso.Signò! Sono quello della luce che vi porta la bolletta della corrente; si aprì la tenda estiva e uscì una donna piangendo con un bambino in braccio ed un altro in arrivo-questi sono gli ultimi soldi che mi rimangono-magari voi non mi credete, ho mio marito a letto con la bronchite che per fare in un giorno due turni di lavoro,si ritirò tutto sudato e fra le spese mediche e le medicine,siamo rimasti senza soldi.I figli che ho sono tutti piccoli e non piangono perchè hanno freddo,piangono perchè hanno fame ed io non ho più niente da dare.Nel sentire quella poveretta che tremante gli dava i soldi per avere la ricevuta, a quello della luce gli si strinse il cuore,volle dare una mano d'aiuto.Teneteveli signora! La pago io la bolletta fate mangiare quelle creature di Dio. E se ne andò contento, forse senza essere un santo un miracolo la fece quel giorno

 

 

 

Sezione Haiku

 

1° Classificato – Nunzio Industria di Napoli con “Luna d'incanto”

 

luna d’incanto
lievita in silenzio – io
una falena

 

2° Classificato – Ada Cancelli di Uggiano La Chiesa (Lecce) con “Viola Pensiero”

 

Viola pensiero

Calda mano fugace

Stinge farfalla.

 

3° Classificato – Loredana Faletti di Aosta con “Burka”

 

Burka su donna.

Senz’aurora la vita

è riarso inverno.

 

Menzione di merito – Rita Stanzione di Roccapiemonte (Salerno) con “Aria nuova”

 

Con l'aria nuova
i foulard rifioriti
Rosa e lavanda

 

Segnalazione – Dorella Pelagalli di Lecce con “Paese”

 

Per Don Liborio

paese salentino

ottimo vino

 

 

 

2° BANDO VERETUM 2016 – SEZIONE NARRATIVA

 

1° Classificato – Renzo Stio di Salerno con “La bimba, l'assenza e una storia”

 

Un minuscolo, insignificante adesivo, più piccolo di una moneta da un centesimo, raffigurava un ragnetto, giallo e nero, con due occhietti inespressivi. Si era staccato dalla superficie del mobile sul quale era appiccicato e ormai non aveva più adesivo a sufficienza per reggersi. S’era già scollato altre volte, perché Alessandra, ogni tanto, lo piazzava su qualche giocattolo per poi rimetterlo comunque al suo posto, sull’anta del mobiletto bianco. Stropicciato, sporco e soprattutto privo ormai della sua dote essenziale – l’adesivo – così, senza riflettere più di tanto e per premura che prima o poi finisse in bocca ad Ale, lo raccolsi da terra e lo gettai nel vaso del bagno.

Nonostante tutta la mia psicopedagogia, non considerai l’evento nella sua effettiva e drammatica portata. Alessandra aveva assistito al mio gesto e subito mi chiese di riprendere dalla tazza il ragnetto. Io fui abbastanza bravo a cercare di convincerla che tutto sommato era solo un pezzetto di carta, che ormai era sudicio e logoro e che non le sarebbe più servito a nulla: “Non si attacca più!”. Perplessa ma apparentemente rassegnata, Alessandra continuava a guardarmi con un’aria interrogativa che di lì a poco una diabolica metamorfosi avrebbe impietosamente trasformato. Uno scroscio violento, il getto possente dell’acqua dello scarico che avevo meccanicamente azionato. Mi voltai verso mia figlia e vidi solo i suoi occhi, smisuratamente grandi e fissi su quell’acqua sparata per uccidere.

Avreste mai creduto che il devastante sentimento della disperazione potesse attraversare il corpicino di una bambina di appena tre anni? Avreste mai immaginato che la più tombale delle sensazioni potesse manifestarsi in maniera inequivocabile sul volto di un esserino così piccolo? Si può credere che un’idea come l’assenza per sempre possa essere perfettamente compresa e incarnata a quell’età? Io, con tutta la mia psicopedagogia, non l’avrei mai creduto possibile.

Qualche attimo e poi l’urlo di un pianto incoercibile e straziante, che storpiava e rendeva quasi incomprensibile la sua supplica a me, affinché evitassi la fine di un mondo. Preghiera che, ovviamente, non potei soddisfare.

Tuttavia riuscii ad offrirle una ragionevole alternativa. Coi bambini funziona. Le dissi che il ragnetto era astuto e sapeva nuotare, e che lungo i canali d’acqua che conducono al mare, avrebbe raggiunto un altro mondo, avrebbe trovato altri amici e sarebbe stato felice di vivere con loro. E così sembrò accettare più facilmente quella sorta di tenera e prematura vedovanza.

Per gli adulti è diverso. I grandi non credono alle favole. Brutta iattura! È per questo che hanno inventato paradisi, reincarnazioni, vite parallele, teorie dell’aldilà, ateismi vari. Non credono alle favole, per questo ne inventano altre più sofisticate.

Alessandra superò la sua disperazione perché credeva alle favole. Sapeva che ci poteva essere un’altra storia e che qualcuno gliel’avrebbe potuta raccontare. Credette in un’altra possibilità, perché seppe naturalmente cogliere l’importanza e la gioia di esserci in un mondo fatto di presenze e di assenze, dove le assenze servono proprio a spingerci un po’ più in là del nostro naso, a farci scoprire e costruire realtà tanto vere quanto è vero il fatto di poterle immaginare e raccontare.

Ma in fondo, non è favola anche la nostra vita adulta? Non è un continuo raccontarsi e raccontare? Non è l’incessante gioco dei perché e delle spiegazioni? E se decidessimo di essere meno saccenti e ancora disposti a meravigliarci? Se accettassimo semplicemente il fatto che ogni storia include ed esclude, ha presenze ed assenze e che le presenze esistono solo perché esistono le assenze?

Quando penso alla storia del ragnetto mi si stringe il cuore. Il ricordo di quel pianto e di quella supplica mi angosciano profondamente. Avverto quasi un senso di colpa per aver costretto mia figlia a misurarsi con la perdita indefettibile. Ma poi ricordo il suo sguardo, rasserenato dalla certezza che la storia avrebbe potuto continuare, anche quando si fosse trattato di una storia di assenza, di assenza per sempre. E la colpa dissolve in amorevole riconoscenza.

 

 

2° Classificato - Vito Cassiano di Tricase (Lecce) con “Un drammatico salvataggio”

 

30 Marzo 1935

 

Capita spesso che, nei giorni di marzo, lo splendore del cielo e la mansuetudine delle acque, a Leuca, susciti ispirazione nei poeti e nei pittori, e spinge incauti giovani a subire la sensazione di freschezza, che il miraggio delle onde procura, e a gettarsi in mare, mentre urge nelle membra il turgore del risveglio primaverile.

Ma c’è, anzi c’è sempre stata, una categoria di persone, che guardavano a queste apparizioni della bella stagione con interessi meno estetici, ma certo con attesa più sofferta e voluta. Queste persone sono i pescatori, che hanno guardato ai segni del tempo e del mare, sempre, con mano gaudio, ma con quella partecipazione e rischio di chi ha qualcosa da spartire.

Se oggi, pur con i mezzi che la tecnica mette a disposizione di tutti, anche della pesca, forse non ci si azzarderebbe ad inoltrarsi nella fossa Ionica, per strappare il salario giornaliero dell’esistenza all’alveo marino; una volta, anche in tempo di marzo, pur con soli vela e remi, bastava che arridesse la placida calma di una giornata serena e senza crucci, e che il tempo presentasse i segni di una costanza di almeno alcuni giorni, ad invogliare e costringere a spingersi lontano, consci del rischio certamente, ma dimentichi dei pericoli.

Così è stato di molti, come per molti di quelli il rischio si trasformò spesso in audacia, e il pericolo in dramma e tragedia.

Il 30 Marzo del 1935 una ciurma di cinque pescatori Pietro Stasi, Luigi denominato Baffone, Francesco denominato Zzi Carlu, Gennaro e Francesco denominati Mori, stretta dai languori di un mare sopito e senza fiato e dal bisogno, che l’inverno trascorso, come ogni inverno, aveva reso più acuto, si inoltrò sotto un soffio leggero di brezza, prima degli albori, sulla fossa, a circa trenta miglia dalla costa per la pesca del conzu. Spirava un gradevole vento da est. Ci fu il tempo per calare e per incominciare a tirare.

Ma ecco che, prima di mezzogiorno, il leggero vento improvvisamente cessò di spirare, mentre il mare si distendeva in una calma sinistra, vellutata e lattiginosa.

Dopo appena mezz’ ora, un fronte nuvoloso, bigio e verdastro, apparve a nord-ovest. In pochi attimi il cielo fu completamente coperto e un vento rabbioso incominciò a tirare da maestro, sconvolgendo la superficie marina che si corruscò e si frantumò in marosi e cavalloni sempre più alti e minacciosi. Il capo barca, il giovane Francesco lu Moru, diede il segno di mollare tutto a mare e cercare di issare la vela, per sfuggire alla furia del vento, che, di momento in momento, si rinforza, e poter guadagnare la riva, prima che fosse troppo tardi. Il maestrale, si sa , non perdona e tutto sparpaglia e scaraventa lontano dalla costa salentina. Allora, la baia di Leuca offre un sicuro porto di rifugio non solo alle barche, ma anche alle navi e ai piroscafi di stazza non elevata. Li vediamo anche oggi, nelle pungenti giornate del maestrale, gettare l’ancora per più giorni, ad aspettare che la furia del vento si quieti.

Ma la piccola imbarcazione, in quel lontano trentacinque, sembrò non essere fortunata. Riuscì a guadagnare quasi la costa; la intravide, ma non poté avvicinarsi.

Infatti, appena issata la vela latina, puntando verso ovest e verso nord, a zig-zag, i cinque riuscirono a tenersi di striscio sotto vento.

Anche se la barca veniva quasi sopraffatta dalle ondate e si riempiva d’acqua, per tutte le dieci ore, finché la speranza di uscirne con le proprie braccia dava forza e coraggio, i pescatori cacciavano, in una lotta impari e furibonda, tutta l’acqua che potevano, per non colare a picco. E sembrava quasi che ce l’avessero fatta. Racconta uno di quegli uomini d’avventura: “ Quella striscia di terra lontana, che appariva e scompariva, tra il flusso e il riflusso delle onde e le sferzate di acqua e di neve, fu per noi la conferma che non eravamo perduti. Il voto alla Madonna di Leuca, nella speranza della salvezza, stava già per sciogliersi in ringraziamento nei nostri animi. Ma una raffica di vento ci portò via il lembo di vela a cui era legata la nostra vita”.

Così, in vista della terra, proprio mentre sembrava che in fondo tutto era stato un brutto momento di una difficile giornata, su quell’orizzonte schiumoso, l’imbarcazione e i cinque uomini rimasero in balia della furiosa tempesta. I remi non servivano. La prepotenza del mare irrideva alla loro esile tenuta; inoltre, l’acqua aumentava di livello nella barca e le braccia erano impegnate. Non c’era più niente da fare.

L’ esile speranza scompariva e stava per annegarsi in quel fosco uragano d’acqua e di vento.

Qualcuno piangeva, imprecava, prometteva, in un dubbioso pensiero di riuscita, di abbandonare

un giorno la pesca. I più giovani masticavano tabacco, per non abbandonarsi allo sconforto. Ormai la barca era senza governo. Il giorno, se giorno potevano dirsi quegli scialbi e lividi baluginii di un cielo plumbeo e bavoso, stava per finire. Intanto, per tutta quella giornata, il paese, percosso da sì funesta intemperie, non rimase chiuso in casa. Dai moli, dal faro, dal semaforo, si guardava, si sbirciava, se tra un sbuffo e l’altro poteva intravedersi, nel rigurgito delle acque, un qualcosa di terrestre,di umano, una sagoma che facesse pensare, tra nuvoli e marosi, a qualcosa come una barca sull’orizzonte.

Nella baia si erano ricoverati alcuni bastimenti e piroscafi. Ad uno di questi, il più grosso, di nome Annunziata Madre, si rivolse una delegazione di pescatori, guidata da Cosimo detto Nochi e Michele detto Pizzarrone, per spingerlo alla ricerca dei dispersi.

Il capitano del piroscafo rifiutava di esporre il proprio equipaggio e l’imbarcazione, ma la tenacia, l’insistenza dei pescatori lo indussero a promettere di accettare di mettersi alla ricerca, purché qualcosa dei dispersi apparisse all’orizzonte.

Dal faro qualcuno volle vedere, in un puntino che sobbalzava a cinque miglia dalla costa, il segno dei dispersi; lo stesso credette di vedere un marinaio, fissato sul palo del piroscafo per scrutare l’orizzonte con il cannocchiale: quel puntino, quel segno come una feluca un po’ più scura del biancore della bava del maestrale, potevano essere loro. Allora il capitano fece muovere la nave. Dopo tre ore di navigazione, proprio quando già la ciurma degli sventurati da poco aveva perso la vela e veniva spinta inesorabilmente verso sud-est in un risucchio senza più ritorno, fu avvistata e salvata. Il freddo, la fame, la paura, l’angoscia di quella lunghissima giornata erano scavati sul volto e negli occhi spalancati di quegli uomini. Qualcuno volle piangere. Tutti, dopo l’abbraccio dei compaesani che erano a bordo del piroscafo, chiesero di fumare. Rientrarono in porto al calar delle tenebre, sotto i riflettori delle unità militari che nel frattempo erano sopraggiunte. Fra i salvati ci fu uno che, oltre alla gioia di sentirsi ridato alla vita, ebbe una gioia altrettanto intensa e cara appena sbarcato, quella di aver dato, proprio in quel giorno, alla vita la sua prima creatura, il primogenito di una famiglia di nove figli, Michele di Francesco lu Moru.

Intanto in quella giornata funesta una trentina di imbarcazioni non videro mai ritorno.

 

3° Classificato – Loredana Faletti di Aosta con “Il viaggio”

 

 

Venite con me? Partiremo col treno, quello lentissimo, che dalla nostra valle ci porta appena fuori, dove ancora si vede scorrere la morena che dell’antico ghiacciaio conserva gli ultimi residui, lasciti delle alte montagne. Un confine. Ci affideremo poi all’altro locomotore, elettrico e perciò ammesso a percorrere il resto d’Italia, biglietto di via per il mondo: Torino oppure – tramite Chivasso – Milano. E poi, “dove ci porta il cuore”, come si sarebbe detto alcuni anni addietro. Giù, lontano, fino al mare. Venite con me? Vi accompagno alla casa che apre il suo balcone davanti a vegetazione mediterranea, spiagge e, appunto, mare. Fin nel centro-sud Italia, terra anch’essa di confine – o di unione –: centro-sud mirabilmente indefinito – ed ampio –, anche nella cadenza del parlare, anche nel carattere dei suoi abitanti, anche nei sapori e nei profumi, anche nel sole. E nell’amore. Venite con me? amiche nate come me in questo nord o qui trapiantate. Nord dove nascono, ed intensi, sinceri, i legami, ma si fatica. Si corre ma si è lenti a riconoscersi, a salutare, a domandare un piacere, a sorridersi. Talora a perdonare.

Venite con me?


 

Vieni con me, amore? In un paese di fiori color malva e profumo di glicine. Dove le grandi foglie delle calle e degli anthurium rilucono del verde vitale, appena ripassato da gocciole di acqua fresca. Nel paese dei fiori e dei contrasti. Dove la neve scintilla come il più prezioso dei diamanti, frammentato a milioni, e tutto è pura gioia di luce bianca e freddo che riscalda le membra di chi è in cammino. Su, lungo una lenta pista sovrapposta a sentieri, rocce ed arbusti di sottobosco, dove sonnecchiano in pace i rododendri che fioriranno in rosso, i sambuchi che profumeranno e poi nereggeranno di bacche e vivono quieta fanciullezza vegetale i giovanissimi abeti. Gli altri, gli adulti, e i larici spogli accompagnano e segnano i passi. Lassù, fino al punto dove la vista raccoglie il tutto e si appaga di una corona perfetta di cime, il cui nome scompare alla memoria, riassunto nella parola “bellezza”. Vieni con me, amore? L’una meta è la casa, e un giardino che ancora non ho. L’altra sono le escursioni in montagna, in questo paese che so che ti piace. Tua gioiosa conquista ogni volta che ritorni.

Vieni a vivere con me, amore?


 

E anch’io partirò. Non me lo domando. Lo so. Lo faccio in continuazione. Ogni fine settimana, salendo verso un villaggio o un colle, in compagnia sempre, perché in montagna è più sicuro e perché, solleticato da molti passi, il sentiero si fa allegro… e ride. Oppure semplicemente avviandomi sulla ciclabile di fondovalle, lungo il fiume, costeggiando i prati, i campi e le aree aperte al sole e ai gitanti, per giungere fin dove essa stessa arriva e si interrompe. Un confine. Oppure più in là, salendo su un treno. Il cambio. Torino. Una giornata con la mia cara amica che vi abita. Più in là. Le mie vacanze solitarie dei primi anni di donna separata. Ieri. I miei viaggi verso il mare, ieri ed oggi. Libertà di scegliere, predisporre, organizzare, fare la valigia e partire. La distanza è acqua che scorre, maree che si alzano, ere geologiche trascorse, catene montuose che si elevano e poi scompaiono, panorami che mutano, città, fermate, stazioni, coincidenze.

La Terra è grande per una formica che, pazientemente, ne avvii la misurazione passo passo. Il cuore è grande e la può contenere tutta. Ed il viaggio… il viaggio, amici miei, è tutto racchiuso lì.

 

Premio alla carriera, ed al racconto “Il libro della memoria”, da parte della Presidenza del Bando Letterario Internazionale di Poesia, Narrativa e Saggistica Veretum di Patù (Lecce) e del Circolo Culturale “Mario Luzi” di Boccheggiano-Montieri (Grosseto) a: Cav. Giovanna Guzzardi Li Volti Presidente Accademia A.L.I.A.S. di Melbourne (Australia) per il suo instancabile impegno teso a diffondere la cultura italiana nel mondo.

 

 

IL LIBRO DELLA MEMORIA

 

In questa fredda mattina d’inverno melbourniano, sono solo 14 gradi, un dolce ricordo si presenta nella mia mente, a dire il vero, sono tanti i ricordi che popolano la mia mente sia col freddo che col caldo, sia col sole che con le nuvole, sia in casa che fuori, sia di notte che di giorno, sempre la mia mente sfoglia i ricordi di gioventù nel grosso libro della memoria.

Sono però ricordi speciali, indimenticabili, perché trascorsi in Italia, nella mia solare Sicilia, in cui ho vissuto fino ai miei venti anni d’età.

Mio padre era il capo del pastificio di Vizzini, (CT), la mia cittadina, era un pastificio conosciuto in tutta la Sicilia, infatti la buonissima pasta che si produceva, veniva esportata sia nei paesi della Sicilia, ma anche in qualche paese d’Italia.

Da ragazzina, nelle vacanze della scuola, tante volte andavo a trovare papà al lavoro, mi piaceva tanto andarci e assaporare quel delizioso profumo di pasta fresca, lì mi conoscevano tutti, mi portavano subito nel reparto dove c’era papà, e lui così affettuoso, mi faceva mettere la farina nella macchina, poi l’acqua, dopo un po’, usciva bianca e profumata ogni tipo di pasta, a lui piacevano tanto gli spaghetti, le fettuccine ed ogni tipo di pasta lunga, diceva che era pasta genuina, invece nella pasta corta si mischiavano tutti i rimasugli della pasta lunga, tutti i pezzetti venivano rimacinati per produrre la pasta di formato piccolo. Noi infatti mangiavamo la pasta più buona, inclusi i campionari, ma sempre pasta lunga, a me piaceva tanto la pasta piccola, ma lui amorevolmente, mi diceva di andarmela a comprare al negozio, che lui non avrebbe portato a casa quella schifezza.

Mio papà era anche un bravissimo musicista classico-operistico, suonava il sassofano e il clarino, faceva tanti concerti in giro in qualche teatro della Sicilia, ma suonava pure nella banda, che era una rinomata banda, la bella banda di Vizzini, ed ancora lo è, suonano nella banda i figli dei miei fratelli da quando avevano otto anni ciascuno, il grande che adesso ha 24 anni, è già Maestro di Musica e professore di Corno, ma anche il fratello piccolo che ha 19 anni, frequenta il Conservatorio a Catania e l’Università, tutti e due somigliano al nonno, è una gioia senza fine vederli suonare, la banda va anche a suonare fuori Vizzini, nelle feste paesane, o a fare concerti, proprio come quando suonava mio papà.

Io e mio papà, eravamo sempre insieme, uscivamo anche tante volte insieme, io a braccetto a lui passeggiavo orgogliosa e felice, lui alto ed elegante e sempre sorridente, eravamo una bella coppia affiatata, lui m’insegnava anche a suonare e fare i solfeggi. A scuola ero bravissima anche nella musica, i professori mi dicevano sempre: “Sei un genio!”, perché facevo i solfeggi sempre esatti e subito, aiutavo anche i compagni.

Mio papà, era un uomo eccezionale, aveva anche una libreria infinita di libri classici di grandi autori, ed io leggevo e leggevo, ma in qualche romanzo, aveva cancellato le parole un po’ spinte, che secondo lui non dovevo leggere, l’aveva cancellate con un inchiostro così nero che non potevo assolutamente capirle.

Mi riempiva di regali: profumi, libri, riviste, sciarpe, occhiali da sole di tanti modelli, ogni volta che usciva, (tutti i giorni dopo la cena) lui veniva dal lavoro alle ore 3.45, usciva alle ore 17.00, quando rincasava non veniva mai a mani vuote.

Aveva una grande passione anche per i fiori, piante e gli ortaggi, ma anche per gli alberi da frutto, aveva studiato agraria, e in casa nostra c’era la terrazza colma di magnifici vasi di fiori profumatissimi, ma anche in campagna c’era un infinito giardino di fiori e frutta. La domenica, unico suo giorno libero andava in campagna, avevamo una campagna alla periferia di Vizzini, proprio vicino casa, lì c’era la casa di villeggiatura, era piena di libri e di riviste per me e mio fratello, mio padre aveva creato un giardino fiorito dappertutto e qualche albero da frutto, ma avevamo anche il forno a legna, mamma preparava le pizze, impanate di verdura, cassate con la ricotta, dolci, pane ecc. papà li cucinava nel forno, una delizia quei gustosissimi cibi casarecci.

Una cosa che a lui non piaceva, era di coricarsi in campagna, appena il sole cominciava a tramontare dovevamo andare a casa.

Una sera bellissima d’estate, nelle vacanze, io la mamma e i miei due fratellini, uno aveva appena due anni, io sedici e l’altro mio fratello undici anni, volevamo coricarci in campagna, provare l’emozione di dormire col frinire dei grilli, con il zirlare delle cicale, il ronzio dei calabroni almeno una volta, ma lui ci disse che noi potevamo rimanere tranquillamente, ma lui sarebbe andato a dormire a casa.

Noi abbiamo risposto che poteva andarsene, ma noi avevamo deciso di restare……..

Che tragedia!!! appena lui scomparve dietro gli ultimi alberi, noi cominciammo ad aver paura, chiudemmo la porta con i catenacci e ci mettemmo a leggere, avevamo tanti giornalini: Tarzan, Il Monello, Topolino, Sorrisi e Canzoni, Grand Hotel, Sogno, ecc... ecc... ma, mio fratello il piccolino, cominciò a piangere e voleva andare a casa, io e l’altro mio fratello, eravamo terrorizzati dei troppi rumori che c’erano sia sul tetto che intorno la casa, mia mamma ci tranquillizzava dicendo che era il vento e gli uccelli notturni, c’erano pure i gatti, conigli, lucertole, qualche cane abbaiava in lontananza, qualcosa si strusciava e fischiava, insomma un concerto terrificante, ci assalì la paura e passammo tutta la notte a lamentarci. Mia mamma era disperata perché non arrivava a calmarci, ci diceva di leggere, ma noi dalla paura non ci potevamo concentrare e tremavamo come foglie al vento.

Verso le quattro del mattino, sentimmo in lontananza dei passi, allora la nostra paura si tramutò in terrore vero e proprio.

Il piccolino finalmente si era addormentato, ma io e mio fratello scoppiammo a piangere, i nostri singhiozzi si dovevano sentire anche da fuori, perché ogni rumore si acquietò, il silenzio era assordante, ma i passi si avvicinavano sempre più e noi sempre più strillavamo e singhiozzavamo, finché una dolcissima voce ci giunse da lontano: “Non abbiate paura, sono io!”

Papà! Era arrivato papà alle quattro del mattino, neanche lui aveva potuto dormire pensandoci in campagna da soli.

Che gioia! Che felicità! Siamo corsi fuori abbracciandoci come se non ci vedessimo da tanto tempo.

Lui non era venuto prima per non svegliarci, non pensava all’odissea che noi avevamo passato, altro che Ulisse, la maga Circe e Polifemo…

Mai più ci è venuto in mente di coricarci in campagna, la nostra casa di villeggiatura era per le vacanze giornaliere, la sera direttamente a casa, sempre e di corsa…

Il giorno del mio compleanno, (San Valentino) era sempre per me una bella festa, c’era sempre una magnifica torta e tanti regali. Per il sedicesimo compleanno, io e le mie amiche ce ne andammo a teatro, si rappresentava nella sala della chiesa di S. Anna, erano un gruppo di attori molto bravi, anche se erano studenti, nostri compagni di classe; due giovani già laureati, avevano creato una bellissima compagnia teatrale e quella sera andava in scena “La Lupa” del nostro grande scrittore vizzinese Giovanni Verga, a Vizzini tutto parla di lui e si fanno sempre rappresentazioni teatrali dei suoi romanzi e delle sue novelle.

Nell’intervallo, mi sono sentita chiamare al microfono ed ero attesa in ufficio.

Naturalmente sono andata subito, era papà, mi disse: “Andiamo a casa, c’è la torta pronta e qualche invitato e tutti ti aspettano.” Io risposi: “Non vengo, non posso lasciare la storia a metà, quando finisce vengo!” e scappai in teatro.

Lui aspettò che il teatro finisse e poi in silenzio andammo a casa.

Fu bellissimo come tutti gli altri compleanni, ma io mi sono sentita sempre male pensando a ciò che avevo fatto e sempre ricordavo a papà quanto ero stata cattiva quella volta.

Ma il dolore più grande doveva ancora arrivare, fu quando gli dissi che mi ero innamorata, poi quando lasciai la scuola, poi il colpo al cuore quando partii per l’Australia per viaggio di nozze e non ritornai

Mi suonava al telefono la Marcia Trionfale di Verdi, mi diceva: “Tesoro sarà un trionfo quando tornerai, ma sono tornata dopo sette anni per fargli conoscere i miei bambini, che attaccati una a lui e uno a mia mamma, non li volevano lasciare…

Ed io son ripartita di nuovo, che figlia sciagurata sono stata! Non l’ho più rivisto.

Quando è morto, erano diciotto anni che non ci vedevamo.

Il suo dolce sorriso io glie l’ho spento per sempre a vent’anni, quando siamo partiti, io e mio marito, per il secondo viaggio di nozze in Australia e non sono più ritornata.

Ho rivisto la mia dolcissima mamma e i miei fratelli più volte, ma lui sono andata a trovarlo al cimitero, adesso tutti e due mi guardano da lassù e li sento vicini vicini.

La loro dolcezza e il loro immenso affetto mi fanno compagnia sempre!!!

 

IL TEMPO CHE E' VOLATO VIA

 

Il tempo è volato via,

insieme ai miei sospiri

e la mia malinconia,

ma ho conservato un po' d'allegria

e con quel tesoro volo via!

Una rondine son diventata

e ogni primavera torno là

dove son nata,

dove ho vissuto

la mia felice giovinezza,

coi miei genitori

che mi riempivano di ricchezza,

ricchezza di vero amore,

ed io come la rondine,

un bel giorno son volata via!

Ancora non ho capito il perché

del mio destino di vivere lontano,

lontanissimo, dove le rondini

non sono mai arrivate,

dove la mia nostalgia

si è arrampicata dappertutto

come l'edera

e mi ha afferrato il cuore,

ma io lì, ho piantato

la mia Bandiera Tricolore!

 

 

Diploma di merito del Circolo Culturale “Mario Luzi” alla tenacia ed alla volontà a Lucia Nicolardi Giunca di Alessano (Lecce) espressa con il racconto “Panchine ad Alessano”.

 

Mi accosto pensierosa a queste desolate panchine, dove il silenzio abbraccia la cornice della piazza, contornata dalla soave bellezza di palazzi antichi, di fregi e di scritte che, dipingono il borgo di un tempo, che ora molti non ricordano più.

 

Osservo la gente che non rivolge neppure uno sguardo intorno a questo tranquillo piazzale e, indifferente, cammina con una certa fretta senza accorgersi della solitudine in cui è immerso.

 

Solo una coppia di giovani innamorati, seduti su una panchina discretamente lontana, e dei ragazzini, emergono tra tanta trascuratezza e solitudine. Le loro urla inseguono un pallone che rimbalza ovattato nel vuoto della piazza con un suono senza tempo ed io l'ascolto come fossi avvolta sotto una coperta in una gelida giornata d'inverno.

 

Ha una sua storia questa piazza ma in un giorno della settimana si anima di bancarelle e di voci, di grida e di caos.

 

Le panchine diventano un deposito di merce dei mercanti, e questa amata piazza sembra tornare al suo antico splendore quando la gente la animava con la loro presenza tutti i giorni.

 

Adesso la vita ritorna solo per un giorno alla settimana e la gente è presente perché gironzola tra le bancarelle per osservare la merce esposta e fare i propri acquisti.

 

Ma a fine giornata, quando le bancarelle del mercato vengono smontate il silenzio e la malinconia ritornano a far pesare la loro presenza.

 

Eppure il cuore mi dice che questa piazza potrà ancora ritrovare il suo antico splendore se la gente comincerà nuovamente a riscoprirne la sua importanza per incontrarsi e parlare perché questa piazza nel passato ha rappresentato la grandezza di questo borgo ed ha fatto la storia di un paese: la città di Alessano.

 

 

SEZIONE NARRATIVA – Studenti

 

1.a Classificata Chiara Maggio, 16 anni, di Gagliano del Capo (Lecce) con il racconto “Zemira”.

 

La pioggia cade lentamente, goccia dopo goccia, in un soave ticchettio, che culla dolcemente e trasporta in luoghi lontani. Chiudo gli occhi inspirando, quest'aria umida che sa di foglie e terra bagnata, per poi, alzare gli occhi verso il cielo grigio, lasciando che quell'acqua mi bagni il viso. Sorrido,prima che le mie lacrime salate si uniscano a quelle del cielo, prima che il pianto inonda le guance e la tristezza sciolga quel sorriso durato solo un attimo, un solo istante di effimera felicità. Sento dei rumori in lontananza, eccoli... cercano me... continueranno a cercarmi finché non mi avranno trovata, in eterno, senza fermarsi. La mente è piena: troppi ricordi la sommergono; come un calice traboccante di momenti, che appaiono davanti agli occhi.

Una ragazza dai capelli neri come piume di corvo e gli occhi di smeraldo, si inchina davanti al vecchio re di quella terra, pronunciando le parole che segneranno il sui destino:

Io, Zemira, giuro di difendere il Respiro del Giorno, fino a che ne avrò le forze, e anche dopo, fino a che mi sarà possibile, tentando anche l'impossibile. Giuro di difenderlo anche a costo della mia stessa vita.

Delle gocce di sangue scarlatto cadono su una sfera dorata e abbagliante, tre piccole gocce sigillano il giuramento di quella ragazza, che chiude con la sua linfa color rubino questo patto. La sfera viene affidata alla nuova Guardiana del Giorno mentre le porte del tempio vengono chiuse. Ma ecco, tutto si sgretola, come pezzi di uno specchio, che cadono al suolo; ogni cosa è tornata alla fredda realtà: il tempio e i suoi marmi svaniscono, il volto preoccupato eppure felice della giovanissima guardiana si dissolve, tutto scompare, il sorriso del vecchio re diventa solo un ricordo lontano; ritornano i fitti alberi di questo bosco, così intricato da impedire al sole l'accesso fra le sue fronde, e quella poca luce che riesce a filtrare fra i suoi rami assume un colore gelido e cupo. Le alte cime sfiorano il cielo, come immense torri, protese verso il firmamento; l'erba copre il suolo bagnato dalla pioggia, la quale, rende difficile distinguere bene la direzione in cui si va, e quella da cui si viene.

I rami più bassi mi graffiante il viso, segnando lunghe linee rosse sulla mia pelle; ma non m'importa, devo proteggere il più grande tesoro di questo luogo, è il mio compito, lo scopo per cui vivo. Non posso lasciare che la notte in vada la terra di Sereah, che ne divora la bellezza e ne nasconda le meraviglie, non posso permettere che il nero manto delle ombre copra per sempre il sole. Sento i cavalli dei miei inseguitori; guerrieri al servizio delle tenebre, privati del cure e dell'anima, incapaci di provare sentimenti che non siano odio e rancore... incapaci di amare. Altri ricordi si affacciano: il fumo si alza, le urla mi rimbomba no nelle orecchie, insieme a uno scapito di cavalli, e ai passi di chi fugge; grida di dolore si levano dalla terra, come un canto malinconico e disperato. I Guerrieri delle Tenebre avanzano, continuano il loro tragitto, distruggendo il villaggio... i corpi dei più coraggiosi, sono a terra esanimi, circondati da pozze col rubino; il loro ultimo urlo parte dal petto, uscendo, però, dalle labbra, simile a un sussurro, mentre anche la loro anima, viene esalata assieme all'ultimo respiro; mentre le strade sono distrutte: involucri vuoti della bellezza di un tempo. La colpa di ciò che è avvenuto è mia, ho ucciso il popolo che avrei dovuto proteggere dall'oscurità delle tenebre, lasciandomi ammaliare da essa. Fumo e lamenti continuano a rimbomba mi nella testa, uniti a un pianto disperato, ma ora, le immagini cambiano: mi rivedo nella sala del trono, nascosta dietro ad una tenda, quando tutto accadde; non avrei dovuto stare lì, non sarei dovuta restare a guardare, quando i seguaci dell'Oscuro entrarono... una spada d'argento fu estratta dal fodero, la vidi trapassare il cuore del re, macchiarsi di sangue; mentre il ghigno soddisfatto di colui che aveva estratto l'arma brillava inquietante sotto il cappuccio. Coloro che venivano dalle ombre, così com'erano apparsi se ne andarono, mentre la ragazza corre fuori dal posto in cui si era rifugiata e lasciandosi cadere accanto al vecchio sovrano, chiedendo scusa, perché, la colpa è sua, mentre lacrime e sangue si mischiano unendosi; gli argini dei suoi occhi si rompono, l'acqua proveniente dal cuore scende sulle guance di quella ragazza per colui che aveva sempre considerato un padre, mentre una mano calda le si posa sul viso asciugandolo

Non piangere, non è colpa tua. Ricorda Zemira, importa solo ciò che c'è, non ciò che c'è stato, perciò, vivi nel presente, e non nel passatoLa pioggia degli occhi cessa di scorrere, mentre lo sguardo del re inizia a perdere la sua lucente vivacità mentre la pelle si tinge di un pallore mortale

ScappaÈ la sua ultima parola, pronunciata al contempo con dolcezza e autorità, nonostante la vicinanza della Grande Livellatrice gli strozzi la voce in gola. Poi, la mano che prima le carezza va il viso, cade a terra con un tonfo sordo, e la vita, silenziosa, scivola via. Mi sembra che gli alberi siano meno fitti... non è forse questo continuo sciabordio, il rumore del mare?... L'erba inizia a diminuire, così come gli alberi che ora lasciano passare la luce; roccia grigia inizia a prendere il posto della boscaglia, continuo ad andare avanti, ma uno strapiombo si apre davanti ai me, sotto, il mare si scontra impetuoso con gli scogli, facendo arrivare la sua spuma quassù. La mia corsa è terminata, non esiste via di fuga... Dei passi risuonano in questo silenzio particolare, contaminato solo dal rumore dell'acqua; mi hanno trovata. Mi volto, estraendo due pugnali che ho legati ad una cinta di cuoio; non so chi dei due ha attaccato, ma ora, combattiamo, colpo contro colpo, in una danza scandita dal suono metallico delle nostre armi, che si rispondono, come in un dialogo, dal ritmo veloce e cadenzato. Il vento si alza, e un soffio più forte, fa cadere il capuccio del mio nemico, nel momento esatto in cui sto per trapassargli li il cuore col pugnale. Ed ora, non posso più fare niente se non allontanarmi, lentamente... è come se mi avessero massacrato l'anima, come se una voragine oscura avesse inghiottito tutto, non c'è più nulla, se non le macchie d'inchiostro dei suoi occhi, così oscure e tenebroso da sembrare senza fondo, eppure, per me, altrettanto rassicuranti. Il suo viso perfetto, incorniciato da morbidi ciuffi color miele mi scava dentro, riduce a brandelli il cuore bruciandomi, tanto antidoto quanto veleno della mia vita. Ricordi... tentano di affiorare, ma non voglio, mi rifiuto di ricordare quegli attimi di felicità, perché ogni effimero granello di questa allargherebbe la voragine del mio cuore...

Perché non l'hai fatto?la sua voce, mi riporta alla realtà. Lo vedo venire verso di me, ed ora, i nostri volti sono così vicini da potersi quasi sfiorare, mentre prende una delle mie mani, facendomi puntare il pugnale all'altezza del suo cuore.Sai anche tu che sarebbe finito tuttocontinua, mentre io non ho la forza di parlare. Non potrei mai ucciderlo, ma il mio compito è difendere il Respiro del Giorno, anche a costo della vita...

Smettila dico con un sussurro, mentre riporto la mano lungo il fianco; imprimo nella mente ogni cosa che varrà la pena ricordare per sempre. Lui continua a fissarmi, il suo sguardo interrogativo si posa su di me, che sorrido tristemente ammirando i suoi occhi, un ultima volta...

Addio Owen...È tutto ciò che riesco a dire prima di lasciarmi cadere nel vuoto.

Taglio l'aria mentre lo stomaco mi si stringe, è come se il mio corpo si scindesse, catturo gli ultimi istanti. Il vento si divide, cullando la mia caduta verso il basso, dura solo un attimo, che sembra infinito. Aghi ghiacciati mi trapassano, arrivano fino alle ossa, l'oscuro e gelido oceano mi abbraccia, trascinandomi nei suoi abissi; la vista inizia ad offuscarsi, pian piano non ricordo più niente, ogni cosa, è coperta da un ronzio continuo... solo un dettaglio è rimasto impresso: una perla di cristallo, che scende da quegli occhi di inchiostro... Mi chiedo, come può la notte piangere per il giorno? È il mio ultimo pensiero, la mia ultima domanda alla quale non posso trovare una risposta; la Mietitrice è già dinanzi a me, e mi sorride porgendomi una mano ossuta, poi, il buio.

 

 

 

2.a Classificata Diletta Giaquinto di Patù (Lecce) con il racconto “90 bianchi, 40 colorati”

 

90 bianchi, 40 colorati”, una semplice indicazione scritta a mano su un pezzo di carta, lasciato volutamente sul tavolo in cucina.

7:01. Andrea si è appena svegliata, sbadigliando e ancora assonnata, lascia la sua stanza da letto per dirigersi in cucina pronta per la colazione. Prende un bicchiere, prende il latte nel frigo, lo versa nel bicchiere, chiude il frigo e con il bicchiere in mano si dirige verso una delle sedie della cucina. Si siede, si porta il bicchiere alla bocca, ma appena prima che il latte tocchi le sue carnose labbra, i suoi occhi si accorgono di un bizzarro foglietto di carta posizionato proprio davanti a lei, al centro del tavolo. Allora lascia il bicchiere, lo poggia sul tavolo, si dimentica della colazione e prende quel piccolo foglietto che tanto attira la sua attenzione.

Legge la frase. Non capisce. Rilegge la frase. Niente.

Gira il foglietto, “Magari c’è scritto qualcosa sul retro”, pensa. Ma dietro non c’è nulla, nemmeno una parola. Così, continua a rigirare tra le mani quel pezzo strappato di carta, e mentre ripete quel gesto senza nemmeno farci più caso, inizia a dar vita a un turbinio di domande:

Cosa diamine può significare? Perché ha scritto proprio questa frase? Perché con la penna rossa? Lo ha scritto con la penna rossa perché è di estrema importanza? Di solito scrive con la penna nera. Allora sì, se ha usato il rosso è sicuramente perché è di estrema importanza. Ma perché prima di partire mia madre ha scritto proprio queste parole?”.

Andrea non trova risposta a nessuna delle sue domande. Resta in silenzio per qualche minuto, senza alcun pensiero in testa. Fissa silenziosamente quel pezzo di carta.

Dopo poco, pensa: “Devo chiamarla e chiederle cosa vuol dire. Non c’è altra soluzione”. Così, presa la decisione, prende il suo cellulare e digita il numero di sua madre, ma termina la chiamata ancora prima di iniziarla.

È sull’aereo ora, non può rispondermi e prima che arrivi a destinazione passeranno delle ore”.

Però la ragazza non ha alcuna intenzione di aspettare ancora per capire cosa significhi quella frase che le dà tanto da pensare.

Devo trovare un’altra soluzione!”, Andrea è così, non vuole andare avanti senza trovare una risposta, non vuole lasciare una domanda in sospeso. Allora torna indietro, ritorna sui suoi passi, ricorda il giorno prima e quelli ancora prima, viaggia con la mente nel passato, e subito negli occhi le si piomba un ricordo.

È venerdì sera, le due donne stanno consumando serenamente la loro cena, e mentre mangiano in silenzio, la loro attenzione viene catturata da una pubblicità televisiva a favore dell’integrazione.

Ancora un’altra pubblicità”, afferma sospirando Andrea al termine della reclame.

Questo perché ancora il problema non è del tutto risolto”, le risponde Isabella con la sua vellutata voce.

Forse potrebbe anche non risolversi, forse non è così importante”.

Tutto è importante se riguarda le persone”.

Dipende da che tipo di persone”.

Dipende dal colore della pelle?”, Isabella guarda sua figlia, che senza impiegarci troppo, risponde:

Non dico che ci sia differenza, penso solo che probabilmente ci sarebbero meno problemi se restassero nel luogo in cui son nati”.

Andrea, tu ami viaggiare. Perché ti piace farlo?”, le chiede Isabella.

Perché adoro scoprire nuovi posti, vedere luoghi che non ho mai visto prima di quel momento, avere delle esperienze, per poi tornare a casa felice, con delle storie da raccontare”, le risponde la ragazza, non capendo però cosa leghi quella domanda a un discorso del tutto differente.

Sai, per loro è leggermente diverso. Tu viaggi per piacere, per avere delle esperienze, loro invece per avere una sola sperata esperienza: esser riusciti a salvare la loro vita. Tu vuoi scoprire nuovi posti, loro vorrebbero che casa loro fosse un posto nuovo, senza guerra, al sicuro. Tu hai delle storie da raccontare, ma non credo siano come le loro. Tu puoi tornare a casa quando vuoi, quando decidi che il viaggio finisce. Per loro il viaggio finisce, ma a volte prima di quando si è programmato. Oppure il viaggio può anche non finire, perché non sempre la continua ricerca di una casa con la sperata voglia di esser al sicuro trova davvero un luogo in cui restare”.

Andrea non parla, ascolta ancora le parole della madre ronzarle in testa. Si rende conto di quanto sia fortunata, e allo stesso tempo, di quante persone non lo siano. La serata trascorre in silenzio, ma poco prima di andare a dormire, Isabella si volta e le dice:

Guarda meglio le persone, non basarti solo sul colore. Non fare calcoli in base alla loro diversità”.

Andrea ritorna al presente, e finalmente comprende il perché di quel biglietto. Sorridendo lo lascia sul tavolo e si prepara per andare a lavoro.

Giunta la sera e tornata a casa, la ragazza scrive un messaggio a sua madre:

-Mamma ho capito cosa volevi dire, mi ricorderò di non giudicare per via del colore della pelle. Ammetto di aver sbagliato, di aver calcolato le persone tenendo solo come canone la loro diversità. ’90 bianchi, 40 colorati’, un calcolo imperfetto, disuguale.

Preferisco ’65 bianchi e 65 colorati’.

-Sono felice di sapere che hai cambiato idea. Ma devo confessarti che il biglietto è solo una piccola annotazione per ricordarti come lavare i capi bianchi e quelli colorati. Mi ero dimenticata di dirti che tipo di lavaggio fare, dal momento che le indicazioni scritte sulla lavatrice si sono cancellate.

Torno presto.

Dormi bene tesoro mio”.

 

 

SEZIONE SAGGISTICA – Su Liborio Romano

 

1° Classificato – Maurizio Nocera di Gagliano del Capo con il saggio “Liborio Romano oggi dopo 160 anni dall'Unità d'Italia”.

 

Sembra proprio difficile togliere dalla mente della gente, soprattutto qui nel Meridione, l’idea che Liborio Romano (Patù, 27 ottobre 1794 – 17 luglio 1867) sia stato un personaggio voltagabbana (trasformista) e traditore di più patrie. Sono stati, e tuttora continuano a farlo, i borbonici e i neo-borbonici a propalare tale idea e, come si sa, lo fanno non per nobili motivi, ma semplicemente perché contrari a tutto ciò che significa patria, valori patriottici, ideali di condivisione popolare e, in ultima analisi, tutto ciò che significa Unità d’Italia, che sia chiaro, quella realizzata nel 1861 non fu quell’Unità per la quale i patrioti del Risorgimento italiano, in primo luogo repubblicani e socialisti, lottarono, ma un compromesso monarchico a sfavore del Sud. Noi stessi oggi critichiamo il comportamento colonialista e predatore di Casa Savoia e lottiamo perché venga riaffermato il concetto che il Mezzogiorno d’Italia non è mai stato una palla al piede dello sviluppo economico della nazione, piuttosto occorre dire che fu la borghesia del Nord e l’aristocrazia sabauda ed ex borbonica che, depredandolo di non poche ricchezze, l’hanno tenuto in un continuo stato di soggezione.

Liborio Romano, docente di Diritto civile e commerciale all’Università degli Studi di Napoli, fu in primo luogo un risorgimentalista della prima ora. Si conosce la sua partecipazione ai moti insurrezionali a partire dal 1820 fino ad arrivare a quelli della vigilia della cacciata dei Borboni da Napoli. Egli fu tenuto sotto osservazione per decenni e fu più volte imprigionato nelle carceri borboniche, più volte confinato e, in alcuni periodi, dovette riparare in Francia per evitare pericoli maggiori per la sua vita.

Sul piano professionale, poiché fu uno degli avvocati più rinomati del foro partenopeo, Romano difese non pochi malavitosi, fra i quali anche degli appartenenti alla camorra. Per questo suo ufficio, il suo nome fu spesso associato alla criminalità campana ma, anche in questo caso, egli fece solo il suo dovere d’avvocato. La sua conoscenza del mondo criminale napoletano, nel momento in cui le cose andavano precipitando e la monarchia borbonica stava per essere abbattuta, in un ultimo tentativo di salvare il salvabile, il re delle Due Sicilie, Francesco II di Borbone, e la sua corte, nonostante conoscessero le idee politiche del Romano, anzi proprio per questo, agli inizi del 1860, con Garibaldi che era già partito da Quarto con i Mille, gli affidarono la direzione della Polizia e, il 14 luglio dello stesso anno, anche il Ministero dell'interno.

È stato proprio in qualità di tali incarichi che Romano ebbe l’opportunità di conoscere più da vicino e dall’interno la camorra napoletana, una delle organizzazioni criminali più pericolose e allo stesso tempo più radicata nel territorio per cui, quando si trattò di impedire un ulteriore spargimento di sangue, non tentennò nel coinvolgere tale organizzazione nel mantenimento dell’ordine pubblico nella capitale. D’altronde cosa era rimasto da fare al governo dei Borboni, non avendo più un esercito che tal si dicesse e men che meno aveva la disponibilità di un apparato poliziesco. Tutti gli apparati governativi si erano disintegrati e Napoli rischiava di subire uno dei genocidi più pesanti della sua millenaria storia.

In quel drammatico momento, tutta l’Europa sapeva già come sarebbe andata a finire quella campagna di moti insurrezionali nella penisola, con Garibaldi che, dopo essere sbarcato in Sicilia, stava risalendo vittorioso le regioni meridionali. Non c’era più nulla da salvare dell’antico regime, per cui Liborio Romano cercò di salvare il salvabile, soprattutto la popolazione civile e i beni materiali e immateriali del regno attraverso non una resa incondizionata a Cavour ma un patto dignitoso per il Sud. È noto che fu lo stesso Romano, in quanto ministro del regno delle Due Sicilie, a consigliare Francesco II di Borbone a lasciare Napoli e riparare a Gaeta prima dell’ingresso a Napoli di Garibaldi il quale, il 7 settembre 1860, entrò in città ricevuto proprio dal salentino-napoletano, nelle funzioni di ministro. La storia ci dice che l’Eroe dei Due Mondi entrò trionfalmente a Napoli con i suoi 28 ufficiali, ma avendo al fianco la moglie del risorgimentalista salernitano Nicola Ferretti e la rivoluzionaria mazziniana gallipolina Antonietta de Pace.

Oggi si dibatte ancora su quanto e di che tipo fu il coinvolgimento della camorra da parte del ministro dell’Interno Liborio Romano. Tuttavia, aldilà della pericolosità del patto Romano-De Crescenzo (capo dei camorristi), che va sempre criticato, è da constatare che effettivamente a Napoli non ci furono moti popolari, né vendette, né le migliaia di morti ammazzati previsti, e perfino lo stesso re, con l’intera famiglia e il resto della corte, se ne andarono a Gaeta, vale a dire a poche decine di chilometri dalla capitale, con un corteo regale che nessuno osò toccare. Ben altrimenti sappiamo come andarono a finire altre disfatte. Penso, ad esempio, al 1789 francese e alla fine che fece a Parigi il re e sua moglie. Penso ancora al 1917 e alla fine che fece lo zar e la sua famiglia. Ma gli esempio sono innumerevoli. E ancora vale proprio la pena di considerare oggi come finì il regno borbonico delle Due Sicilie a confronto con le conclusioni delle tante guerre del Novecento, dove abbiamo assistito (assistiamo ancora) alle più immonde atrocità, commesse da mercenari senza patria e senza ideali e nel disprezzo di qualsiasi convenzione internazionale. Certo, occorre considerare il fatto che, dopo la fuga da Napoli di Francesco II, e nel turbinio dei nuovi poteri connessi all’annessione del Sud allo Staterello sabaudo, non tutto fu rispettato come concordato da Liborio Romano col Cavour (per colpa di quest’ultimo e di Vittorio Emanuele II, che continuò ad essere re dello staterello avuto in eredità dai suoi avi savoiardi), per cui, proprio nelle regioni meridionali si innervò il fenomeno del brigantaggio, che non va considerato come una dannazione di questa parte del Paese, ma come una conseguenza inevitabile dello scombussolamento post risorgimentale. Anzi occorre dire che l’annessione alla Casa Savoia senza il rispetto di quelle condizioni poste dal Romano, significarono il tradimento di tante lotte e di tanti sacrifici che i risorgimentalisti mazziniani e garibaldini avevano condotto sin dal 1799, anno della rivoluzione partenopea.

Che dire ancora di Liborio Romano, quando verifichiamo oggi che egli, tutto sommato, non fu affatto quel “maledetto” ministro di cui i neo borbonici hanno cianciato e cianciano tanto? La storia ci dice che egli fu confermato allo stesso ministero da Garibaldi e che, alle elezioni politiche unitarie del gennaio 1861, fu eletto deputato in otto diverse circoscrizioni. Il popolo napoletano non dimenticò mai che Liborio Romano, in un momento drammatico della capitale, salvò il salvabile; per questo lo elesse deputato fino al 1865. Il 25 luglio di quello stesso anno, don Libò (così lo chiamava il popolo di Napoli e di Patù) si ritirò dalla vita politica e ritornò al suo paesello, dove visse ancora per qualche altro anno.

Infine, mi viene da dire che, a proposito di giudizi politici, per me vale soprattutto quello che su Liborio Romano espressero due valenti cattedratici. Il primo è Nico Perrone, per anni docente di Storia contemporanea e di Scienze Politiche all’Università degli Studi di Bari il quale, per primo, nell’ambito di quell’alta istituzione, non ebbe remore ad affermare che Liborio Romano va inserito a tutti gli effetti nel panorama del Risorgimento italiano. Egli è autore del libro L’inventore del trasformismo. Liborio Romano, strumento di Cavour per la conquista di Napoli (Rubettino editore, 2009). Il secondo cattedratico è il galatinese Giancarlo Vallone, ordinario di Storia delle Istituzioni Politiche presso l’Università del Salento (autore del volume Dalla setta al governo. Liborio Romano, Jovene editore) il quale, anch’egli, nell’introduzione al libro di Liborio Romano, Scritti politici minori (sua cura, Lecce, Centro Studi Salentini, 2005), scrive: «Si tratta anzitutto di restituire Romano al suo ruolo vero nel Risorgimento del Mezzogiorno continentale, del quale egli, nel Sessanta [1860], è certamente il maggiore protagonista, dopo Garibaldi e Cavour» (p. VII).

Come si vede non si tratta di due giudizi improvvisati e magari di persone sprovvedute, ma di due straordinari esperti del settore che, prima di scrivere una riga ci pensano e riflettono sulla base di approfonditi studi. E a questi giudizi di eminenti storici, non va sottaciuta la passione di Giovanni Spano di Patù, fondatore dell’Associazione culturale intitolata al suo illustre compaesano, associazione che si prefigge l’obiettivo «di rivalutare la figura di don Liborio attraverso lo studio della storia e delle tradizioni di Patù, del Salento e del Sud». Anche lo studioso tricasino Francesco Accogli ha dedicato un volume al Personaggio Liborio Romano. (Il laboratorio editore, Parabita).

 

 

2° Classificato – Misk Hamid di Roma con il saggio “La vicenda politica di Liborio Romano”.

 

Chi meglio di Liborio Romano anticipa e simboleggia quel tanto criticato, odiato e rinnovato fenomeno che va sotto il nome di “trasformismo politico”?

Di certo la breve storia della Repubblica italiana ne è ricca di esempi ma il suo nome, così come la sua storia personale e politica risultano essere tra i maggiori e più significativi.

La vicenda politica e istituzionale di Liborio s’inserisce in quell’intricato e complesso contesto della riunificazione d’Italia. Lui da giurista e “finto oppositore”, membro di sedicenti organizzazioni carbonare che militavano per la costruzione di uno Stato nazionale in cui il suo meridione avrebbe trovato giovamento politico e sociale, e soprattutto una maggiore prosperità economica, ne trasse il massimo profitto, dapprima come oppositore ai Borboni, poi, nel momento del crollo del regime borbonico, quando Ferdinando II tentò l’ultima carta rimastagli per evitare la sua caduta, nominandolo a capo del ministero dell’Interno. Romano accettò spudoratamente l’incarico, senza porsi delle domande di carattere politico, etico o idealistico.

Ma poniamoci noi oggi questa bella domanda: come videro e giustificarono i suoi compagni di lotta questo suo voltafaccia? Nessun’altra parola poteva renderci l’idea di questa situazione meglio della parola “tradimento”. Il suo fu un tradimento politico della sua fazione di appartenenza. In ciò Romano si rivelò un astuto teatrante innovatore e un precursore di un modo sconosciuto di fare politica, “senza uno schieramento vincolante, mostrando una rapidità di passaggio da una parte all’altra, come un acrobata che salta da una corda all’altra, senza mai temere i pericoli o girarsi indietro”.

Così, il povero Ferdinando II scelse il peggior personaggio per salvare il suo trono dall’inarrestabile avanzata dei garibaldini.

Da ultimo ministro dell’Interno dei Borboni egli, non solo disattese le loro speranze e le loro attese di vedere salva la loro Corona, ma cercò, da trasformista innato che era, di accrescere la sua clientela politica, tessendo nuove relazioni sociali e politiche. La sua capacità di scaltro comunicatore gli servì in questa impresa. Egli, in questo senso, fu un grande anticipatore dei tempi nostri, riuscendo già a capire allora che il consenso politico, per quanto sia strumentale, effimero e temporaneo, si conquista attraverso azioni propagandistiche e pubblicitarie: menzogne, affissioni di manifesti, avvisi, cartelloni per ingannare l’occhio e la mente di quella plebe ancora analfabeta e soggetta alla miseria, ai drammi sociali e ai dispotismi.

Da ministro dell’interno, egli seppe addomesticarsi questa plebe e le organizzazioni politiche che rappresentavano la città e compì, si potrebbe dire, il suo secondo passaggio, o adopererei un termine più giusto, la sua seconda metamorfosi: il passaggio con i garibaldini.

Romano non solo non cercò di Salvare i Borboni, ma ne accelerò la loro fine, stringendo un patto con Garibaldi, offrendogli la chiave della Capitale del Regno, Napoli.

Lo storico Nico Perrone che ne tenta la riabilitazione, fa un raffronto tra quel contesto di connivenza tra la malavita organizzata (cioè la Camorra napoletana) e le istituzioni di allora ed è l'identico contesto che vide lo Stato italiano durante gli anni che seguirono l’assassinio dei magistrati Falcone e Borsellino, ovvero quello di trattare segretamente con la Mafia siciliana per arrestare quell’ondata di attentati che stava scuotendo il paese in quegli anni. Molto si è detto su questa vicenda tra inchieste della magistratura, confessioni dei pentiti, sentenze, negazioni della classe politica coinvolta e menzogne varie.

Ma che cosa cerca di dirci questo storico attraverso la sua re-interpretazione dei due contesti? Quale tipo di riabilitazione si prova a costruire per lasciare in sella nei fatti sta tradendo i suoi ideali, che erano di spirazione liberale? Un bel trasformismo davvero esemplare e spettacolare!

Dare il nome di riformismo a siffatta operazione ritengo sia davvero qualcosa di semplicemente improprio e poco adeguato. Romano “svendette il suo amato Meridione” al condottiero Garibaldi, non perché egli credeva nell’ideale unitario della patria Italia, ma per trarre da questa transizione politica il suo massimo beneficio personale.

Analizzando proprio questi avvenimenti storici che lo spinsero a girare per le vie di Napoli sul calesse insieme all'eroe dei due mondi, possiamo oggettivamente constatare quanto sia stato tradito ogni profondo ideale in questa vicenda: fu tradito l’ideale unitario, in quanto gli stessi meridionali o cittadini del Regno delle due Sicilie, furono presi in giro da promesse di concessioni economiche, riforme sociali ed economiche mai attuate in seguito*, furono traditi gli stessi ideali patriottici, perché se la stessa Italia, fosse stata costruita sulla base di una naturale e spontanea adesione a questo progetto di unità nazionale, la stessa Paria Italia ne avrebbe, com’è giusto che fosse, tratto il massimo beneficio. Invece tutti gli avvenimenti successivi misero in luce le contraddizioni e i drammi che stavano alla base dell’Italia unita. Eletto alla Camera dei deputati in più collegi, egli chiese con forza, come se fosse stato investito da un attacco di rimorso, la riconsiderazione dei problemi del Meridione, e magari il rispetto di quelle promesse fatti dallo stesso Garibaldi ai poveri meridionali, al Conte Cavour. Quest’ultimo, artefice ed ideatore politico della riunificazione del paese, non convinto della sua adesione politica e della sua fedeltà ai suoi progetti, gli girò le spalle, avviandolo ad un rapido declino.

Che cosa, in sintesi, si potrebbe oggi sostenere del personaggio Liborio Romano, alla luce di oltre 150 anni di storia italiana? Soltanto che Liborio Romano appartenga alla schiera degli eroi fallimentari e deludenti della storia del nostro paese, dal momento che il suo pessimo esempio d’uomo politico, dalle multiformi identità e contraddizioni, sia stato in seguito preso a modello dalle generazioni future dei politici che si sono succedute nel governo di questo paese dal momento che ciò che più colpisce sia stata la doppiezza con la quale ha affrontato le controverse e contraddittorie situazioni in cui di volta in volta si sia trovato.

In conclusione possiamo affermare tranquillamente che se si fosse trovato in situazioni diverse d'impasse e di impotenza davanti ad un Cavour determinato (ed ormai abbondantemente sospettoso di Don Liborio che aveva cominciato ad emarginarlo) egli avrebbe nuovamente impiegato lo stesso atteggiamenti ed avrebbe tradito anche quella stessa nuova Patria tanto cara ai garibaldini, ai carbonari e a coloro che avevano sognato un’Italia unita, moderna e liberale.

La storia del ventesimo secolo ci ha dimostrato ampiamente quante difficoltà e quanti drammi sono stati necessari per mantenere in piedi un paese dalle immense potenzialità, ma anche dalle forti contrapposizioni.

 

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* La vera genesi del brigatismo e delle mafie che si moltiplicarono nel meridione risale proprio a questa mancata realizzazione delle aspirazioni dei meridionali e in definitiva dello stesso progetto unitario dello stato nazionale italiano.

 

 

ELENCO DEI GIURATI 2016 DEL BANDO LETTERARIO VERETUM

 

Dott.ssa Cinzia Baldazzi, laureata all'università “La Sapienza” di Roma. E' una Saggista e Critico Letterario.

Libero professionista come Giornalista presso Rai1. E' stata per lunghi anni collaboratrice nei programmi di

intrattenimento su Rai1 con Pippo Baudo e Raffaella Carrà, ed ha gestito in RAI anche un programma di poesia.

E' vice-direttore della rivista online “Sipario”.

 

Dott. Mauro Ciardo, Scrittore, Pubblicista, Giornalista della “Gazzetta del Mezzogiorno, Redazione di Lecce.

 

Ing. Viviana Viviani vive a Bologna, laureata in Ingegneria presso l'Università di Ferrara e con un Master of

Business Administration presso l'Università di Bologna.

Giornalista Pubblicista registrata presso Ordine dei Giornalisti Emilia e Romagna di Bologna dal 4 marzo 2014.

 

Prof. Lorenzo De Ninis, di Lignano Sabbiadoro (Udine), Professore di Lettere in pensione, Poeta, Recensionista,

Saggista, Webmaster del portale www.poetare.it .

 

Dott. Giulio Maffii, di Pisa, Poeta, Saggista, già direttore Editoriale de “Il Foglio Letterario” di Piombino.

 

 

Prof.ssa Fabia Binci di Arenzano (Genova), Insegnante di Lettere in pensione,

Laureata presso Università Cattolica del Sacro Cuore - Sede di Milano.

Esperta di poesia Haiku è spesso ospite in incontri di poesia Haiku ed è membro di Giuria in diversi Bandi

Letterari.

 

 

Dott. Salvatore Armando Santoro, Poeta, Organizzatore di eventi culturali, già Giornalista e Webmaster del

portale www.circoloculturaleuzi.net.

E' sovente chiamato a far parte delle Giurie dei Bandi Letterari e di Poesia Haiku.

E' Presidente della Giuria del Bando Letterario Città di Montieri e del Bando Letterario Veretum.

 

 

 

 


102 ANNI DOPO - Compleanno di Mario Luzi - da Salvatore Armando Santoro

COMPLEANNO MARIO LUZI: OGGI AVREBBE COMPIUTO 102 ANNI

Mario Luzi è nato a Castello (Firenze) il 20 Ottobre 1914 ed oggi avrebbe compiuto 102 anni.

Il Circolo lo ricorda a tutti gli amici e simpatizzanti della poetica luziana e si augura di poter presto ospitare nelle proprie pagine qualche saggio impegnato in occasione dell'assegnazione del Nobel della Letteratura a Bob Dylan, che letterato non lo è stato mai, per ricordare il mancato precedente riconoscimento del Nobel quando venne assegnato a Dario Fo che, comunque, ha alle sue spalle una vasta biografia di testi teatrali e la sua conoscenza della letteratura, tradotta poi nelle sue opere teatrali, lo accredita come un ottimo letterato.

 

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Da www.letteratura.it 

«Non esiste un poeta di così lungo corso e sempre in ascolto come è Mario Luzi, il cui itinerario poetico non ha mai comportato una pigra amministrazione delle proprie ricchezze, ma si è sempre prodigalmente speso, e tuttora si spende, in diverse avventure dell'immaginazione con un esito di molteplicità che non ha eguali nel nostro secolo». Queste parole di Stefano Verdino ben introducono a questo grande poeta, il maggiore contemporaneo italiano. Mario Luzi è nato a Castello, allora frazione di Sesto Fiorentino, ora inglobato in Firenze, il 20 ottobre 1914 e «diversamente da altri importanti poeti della sua generazione come Bertolucci, Caproni e Sereni, Luzi è stato pressoché‚ subito riconosciuto: la sua era un'«immagine esemplare» (secondo una famosa definizione di Carlo Bo) già nel 1940., quando il poeta non ancora ventiseienne viveva in quella capitale della letteratura italiana che era la Firenze degli anni trenta, la città allora di Montale, Gadda, Palazzeschi, Vittorini, Gatto, Pratolini e altri. Il precoce riconoscimento comportò anche un'etichetta - Luzi poeta ermetico, anzi il poeta ermetico per antonomasia - che, mai respinta dal poeta fedele alla propria giovinezza, si è sempre più mostrata limitante e inadeguata. La vastità dell'opera luziana fa sì che egli sia un poeta plurimo come pochi e che sia emblematico di stagioni tra loro diverse: il primo Luzi (fino agli anni cinquanta) è significativo rappresentante di una lirica esistenziale (soprattutto con Sereni, suo prediletto interlocutore in poesia) di derivazione ben più montaliana di quanto l'appariscente orfismo di alcune sue punte ermetiche faccia supporre. Però poi si apre la svolta: il punto di vista non è più tra l'io e la realtà, non c'è più giudizio (o pregiudizio): l'io come tutti e tutto è nel flusso, è attraversato dalla vita, come è attraversato dalla parola: il poeta assume per sé‚ il ruolo umile e superbo di scriba, in un rinnovamento degli istituti del dire poetico e delle prospettive fondamentale per il tardo Novecento, affine, per quanto diversissimo, all'altro prediletto compagno di poesia, Giorgio Caproni. È la stagione poetica che, dopo la svolta di Nel magma, fa la grandezza del Luzi di tardo Novecento, poeta della «pienezza» (per usare un’espressione di Giovanni Giudici). E va riconosciuto il coraggio di una poesia che, per quanto allarmata dal nefando della storia, dice un raro (o forse unico) "sì" a una vita naturale (Stefano Verdino, in “Italica”, www.italica.rai.it).Mario Luzi è scomparso all'età di novant'anni nel febbraio 2005.

 

 


Finalisti 2° Bando Internazionale Veretum - da Salvatore Armando Santoro

2° BANDO LETTERARIO INTERNAZIONALE 2016

DI POESIA, NARRATIVA E SAGGISTICA VERETUM

ORGANIZZATO DALLA PROLOCO DI PATU' (LECCE)

CON LA COLLABORAZIONE E DIREZIONE TECNICA

DEL CIRCOLO CULTURALE “MARIO LUZI” DI BOCCHEGGIANO-MONTIERI (GR)

 

GRADUATORIA FINALE 2016

 

SEZIONE POESIA

 

1° Classificato – Rita Stanzione di Roccapiemonte (Salerno) con “ Sottinteso, si sogna, si sogna ancora”

 

2° Classificato – Pina Petracca di Surano (Lecce) con “Nasra”

 

3° Classificato – Enrico Calenda di Venezia con “Come un lichene”

 

4° Classificato - Walter Cassiano di Monte Porzio Catone (RM) con “Come vivi?”

 

5° Classificato - Lorenzo Piccirillo di Pontinia (Latina) con “Bidone”

 

Segnalazione Speciale e Menzione della Giuria – Carlo Simonelli di Berna (Svizzera) con “Un albero”

 

Segnalazione speciale – Giancarlo Colella di Acquarica del Capo (Lecce) con “Terra d'amore”

 

Segnalazione Speciale – Armando Bettozzi di Roma con “Don Matteo della rottamanza”

 

Menzione di Merito – Graziano Gismondi di Milano con “Alito di vento”

 

Menzione di merito – Caterina Tagliani di Sellia Marina (Catanzaro) con “Cullata dalle onde”

 

Menzione di merito – Ada Cancelli di Uggiano La Chiesa (Lecce) con “ Viuzze e vicoli”

 

Menzione di Merito – Vito Cassiano di Tricase (Lecce) con “Presagio”

 

Menzione di Merito e della Giuria – Maria Teresa Protopapa di Gallipoli (Lecce) con “Fragile”

 

Menzione di merito – Chiarini Maria Ravenni di Firenze con “ Barconi”

 

Segnalazione a Giustina Ambrosini di Chioggia (Venezia) con “Siria”

 

Segnalazione a Maria Teresa Manta di Aradeo (Lecce) con “ Forse”

 

Segnalazione a Francesco Galgani di Massa Marittima (Grosseto) con “Esperimenti europei su cavie umane”

 

 

SEZIONE POESIA – Studenti

 

1° Classificato Sebastiano De Nuccio anni 11 di Patù (Lecce) con “ Sentimenti d'estate”

 

 

Sezione Poesia in Vernacolo

 

1° Classificato – Armando Bettozzi – con “Er teatrino” (Dialetto romano).

 

2° Classificato – Giancarlo Colella di Acquarica del Capo (Lecce) con “La creazzione incompiuta” (Dialetto Salentino).

 

3° Classificato Gaetano Catalani di Ardore Marina (Reggio Cal.) con “Ma l'anima ti scianca” (Dialetto reggino jonico).

 

Menzione di Merito – Francesco Calò di Lecce con “Lecce, città te cultura e amore” (Dialetto salentino)

 

Segnalazione Speciale – Sabino Zazà di Corato (Bari) con “Cudde de la Lusce”

 

Sezione Haiku

 

1° Classificato – Nunzio Industria di Napoli con “Luna d'incanto”

 

2° Classificato – Ada Cancelli di Uggiano La Chiesa (Lecce) con “Viola Pensiero”

 

3° Classificato – Loredana Faletti di Aosta con “Burka”

 

Menzione di merito – Rita Stanzione di Roccapiemonte (Salerno) con “Aria nuova”

 

Segnalazione – Dorella Pelagalli di Lecce con “Paese”

 

 

2° BANDO VERETUM 2016 – SEZIONE NARRATIVA

 

1° Classificato – Renzo Stio di Salerno con “La bimba, l'assenza e una storia”

 

2° Classificato - Vito Cassiano di Tricase (Lecce) con “Un drammatico salvataggio”

3° Classificato – Loredana Faletti di Aosta con “Il viaggio”

 

SEZIONE NARRATIVA – Studenti

 

1.a Classificata Chiara Maggio di Gagliano del Capo (Lecce) con il racconto “Zemira”.

 

2.a Classificata Diletta Giaquinto di Patù (Lecce) con il racconto “90 bianchi, 40 colorati”

 

 

SEZIONE SAGGISTICA – Sul personaggio Liborio Romano

 

1° Classificato – Maurizio Nocera di Gagliano del Capo con il saggio “Liborio Romano oggi dopo 160 anni dall'Unità d'Italia”.

 

2° Classificato – Misk Hamid di Roma con il saggio “La vicenda politica di Liborio Romano”.

 

 

SONO STATI CONCESSI, INOLTRE, I SEGUENTI PREMI AD ALCUNI CONCORRENTI PER MERITI SPECIALI:

 

 

Premio alla carriera, ed al racconto “Il libro della memoria”, da parte della Presidenza del Bando Letterario Internazionale di Poesia, Narrativa e Saggistica Veretum di Patù (Lecce) e del Circolo Culturale “Mario Luzi” di Boccheggiano-Montieri (Grosseto) a:

 

Cav. Giovanna Guzzardi Li Volti

Presidente Accademia A.L.I.A.S. di Melbourne

 

per il suo instancabile impegno teso a diffondere la cultura italiana in Australia.

 

 

 

 

Diploma di merito del Circolo Culturale “Mario Luzi”

alla tenacia ed alla volontà a

Lucia Nicolardi Giunca di Alessano (Lecce)

espressa con il racconto “Panchine ad Alessano”.

 

 

PREMIO ALLA CULTURA, ED ALLA POESIA “Nel silenzio della violenza”,

DA PARTE DELLA PROLOCO DI PATU' (LE)

E DEL CIRCOLO CULTURALE MARIO LUZI DI BOCCHEGGIANO-MONTIERI (GR) A

 

GIOVANNI MONOPOLI DI TARANTO

 

PER IL SUO IMPEGNO RIVOLTO AL RILANCIO DELLA POESIA

E DELLA LETTERATURA.

 

 

 

PREMIO DELLA PRESIDENZA DELLA PROLOCO DI PATU' (Lecce) a

Antonio Cosimo Grezio di Gemini (Lecce)

per la poesia “San Gregorio” tesa a evocare le antiche vestigia di un territorio che è parte integrante della storia del Salento.

_______

 

MENZIONE SPECIALE DA PARTE DELLA PROLOCO DI PATU' (LE)

E DEL CIRCOLO CULTURALE MARIO LUZI DI BOCCHEGGIANO-MONTIERI (GR) A

Maria Cosi di Patù (Lecce)

per la poesia “A Dante” tesa ad esaltare la figura del grande poeta fiorentino che ha dato lustro e splendore nel mondo alla letteratura italiana.

 

ELENCO DEI GIURATI 2016 DEL BANDO LETTERARIO VERETUM

 

Dott.ssa Cinzia Baldazzi, laureata all'università “La Sapienza” di Roma. E' una Saggista e Critico Letterario. Libero professionista come Giornalista presso Rai1. E' stata per lunghi anni collaboratrice nei programmi di intrattenimento su Rai1 con Pippo Baudo e Raffaella Carrà, ed ha gestito in RAI anche un programma di poesia.

E' vice-direttore della rivista online “Sipario”.

 

Dott. Mauro Ciardo, Scrittore, Pubblicista, Giornalista della “Gazzetta del Mezzogiorno, Redazione di Lecce.

 

Ing. Viviana Viviani vive a Bologna, laureata in Ingegneria presso l'Università di Ferrara e con un Master of Business Administration presso l'Università di Bologna.

Giornalista Pubblicista registrata presso Ordine dei Giornalisti Emilia e Romagna di Bologna dal 4 marzo 2014.

 

Prof. Lorenzo De Ninis, di Lignano Sabbiadoro (Udine), Professore di Lettere in pensione, Poeta, Recensionista, Saggista, Webmaster del portale www.poetare.it .

 

Dott. Giulio Maffii, di Pisa, Poeta, Saggista, già direttore Editoriale de “Il Foglio Letterario” di Piombino.

Prof.ssa Fabia Binci di Arenzano (Genova), Insegnante di Lettere in pensione,

Laureata presso Università Cattolica del Sacro Cuore - Sede di Milano.

Esperta di poesia Haiku è spesso ospite in incontri di poesia Haiku ed è membro di Giuria in diversi Bandi Letterari.

 

 

Dott. Salvatore Armando Santoro, Poeta, Organizzatore di eventi culturali, già Giornalista e Webmaster del portale www.circoloculturaleuzi.net.

E' sovente chiamato a far parte delle Giurie dei Bandi Letterari e di Poesia Haiku.

E' Presidente della Giuria del Bando Letterario Città di Montieri e del Bando Letterario Veretum.

 

 


Poesia "Saro" con recensione di Cinzia Baldazzi, giornalista Rai1 - da Salvatore Armando Santoro

SARO (Rosario)

di Salvatore Armando Santoro

 

Dove sei, Saro, dimmi dove sei?


Dove sono i nostri anni, Saro, dove sono?

Dove sono i nostri passatempi?

Dove le nostre risate prorompenti?


Notti d’agosto povere di luna

nei vicoli privi di lampioni,

tra quelle case vecchie e decadenti,

seduti su gradini traballanti

a raccontare storie inesistenti,

a guardar le stelle sul cielo luccicanti.


“Guarda, guarda, che lunga scia”,

“è una stella morta da tanti anni”,

“e la vediamo adesso, questa notte”?

“Esprimi un desiderio,

fallo ora in gran fretta,

ché la traccia si spegne e non aspetta”.


Notti di cieli tersi,

stelle cadenti,

scie declinanti,

sogni nostri oramai morenti

che nel ciel dell’infanzia si son persi.


Saro, Saro, rispondi, dove sei?

Questa notte sto pensando ai nostri morti,

e tu sei qui con me coi pantaloni corti,

col tuo sorriso franco e giovanile

senza pensieri in testa

come agnelli fuggiti dall’ovile.


Stiamo ridendo, ma siamo anche un po’ tristi

ancora insieme nel buio di Chiesa Pepe

con la campana che ora mesta tace

con le candele spente,

spente come i pensieri in testa,

che s’agitano senza trovar pace,

ma aspettano ancora il dì di festa.


Saro, sei qui con me in questa lunga notte

ti chiamo ma la voce mia non senti,

sei qui nella mia mente,

nei miei occhi lucenti,

parlo con te ma tu non dici niente.



(Donnas 21 Settembre 2015)

 

ESTRATTO DALLA RECENSIONE DI CINZIA BALDAZZI, GIORNALISTA E COLLABORATRICE DI RAI1, RIPORTATA NELL'ANTOLOGIA, AUTOGESTITA DA 11 AUTORI, “ORME POETICHE” (A cura di Pasquale Rea Martino), CHE SARA' PRESENTATA IL 15 PROSSIMO AL SALONE DEL LIBRO DI TORINO, DALLA CASA EDITRICE INTERMEDIA EDIZIONI – VITERBO CHE L'HA PUBBLICATA.

 

Sulle tracce della poetica moderna - anch’essa, da parte sua, contestatrice, nelle varie correnti, di ogni presunta corrispondenza materialistica tra parola/ arte e parola/verità - si muove Salvatore Armando Santoro, riproponendo liberamente versi forgiati sulla “natura”, poiché li trova indissolubilmente legati al pensiero “angosciosamente preciso del tempo”, al sentimento “assoluto del perire”, come osserva Anna Dolfi riportando alcuni termini utilizzati da Giuseppe Ungaretti nelle Lezioni degli anni romani (in Leopardi e il Novecento, 1973).

Dunque, ospiti dell’area semantica di Saro sono l’idea della natura-paesaggio, di antico, di tempo, di durata, di memoria, del temuto oblio: “Saro, dimmi dove sei? /Dove sono i nostri anni, Saro, dove sono? / Dove sono i nostri passatempi? / Dove le nostre risate prorompenti?”. Quante volte, del resto, sarà accaduto, a tanti tra noi, di riflettere sul passato come potesse essere ancora presente, non tanto perché indotti dalla necessità di recuperarne o esplicitarne ex-novo “formule simboliche“ in grado di incanalarne le passioni umane: piuttosto, per sperimentarne, nella misura del “vissuto“ seguente - tra “stelle cadenti, / scie declinanti, / sogni nostri oramai morenti / che nel ciel dell'infanzia si son persi” - la forza oggettiva nella quale i “sentimenti“ di allora si rivelano adeguati a un’umanità vera e non strumentalmente trasformata in qualcosa di “diverso”.

 

Emerge pertanto, tra le righe di Santoro, un intero contesto esistenziale forte di una emozione adulta, sperimentato di nuovo: dapprima cercato in sé (“Dove sono i nostri anni Saro, dove sono?”), poi, come qualcosa di trascorso, attraversato dalla capacità del pensiero e dall’incanto della parola poetica, solidali ma differenziati; soprattutto, non dispersi nella loro confusione.

 

Saro, sei qui con me in questa lunga notte”, leggiamo, “ti chiamo ma la voce mia non senti”. Ma subito dopo: “sei qui nella mia mente, / nei miei occhi lucenti, / parlo con te ma tu non dici niente”. Saro “non parla” in quanto le differenti conferme, raffigurazioni concrete da lui inaugurate, non superano la linea di demarcazione tracciata tra sentimenti genuini e convenzionalità. Ma la costruzione dello stile, altissima e sapientemente ritmata secondo strutture affermate nella tradizione, fanno sì che ancora una volta Santoro riproponga proprio Ungaretti come riferimento ideale post-romantico, con una ri-costruzione sul passato nuova e originale, non annullandolo, ma su quelle vestigia capace di evocare una costruzione ideologia e poetica adeguata ai tempi; ciò nonostante, consapevole della profondità storica che lo ha preceduto. Insomma, uniamo le nostre domande a quelle dei versi: Saro, dove sei andato? Quando si è rivelata la tristezza? (“Questa notte sto pensando ai nostri morti, / e tu sei qui con me coi pantaloni corti”). Dove ti nascondi? Prima, è vero, il campo era libero, il cielo aperto, libera l’unione: “col tuo sorriso franco e giovanile / senza pensieri in testa / come agnelli fuggiti dall'ovile”, non si pensava alle leggi dell’uomo ma alle “risate prorompenti”, ai “nostri passatempi”. La voce per gridare, per cantare, quasi accompagnati da una musica riservata, ma graziosa, adorabile, tutta nostra, tipica dei sogni: durante le “notti d'agosto povere di luna / nei vicoli privi di lampioni / tra quelle case vecchie e decadenti / seduti su gradini traballanti”. Un contesto simile è come velato: il nostro poeta condivide, del resto, l’opinione già maturata da Leopardi - e da Friedrich Hegel, filosofo del quale il grande recanatese ignorava il meccanismo logico della dialettica della contraddizione - secondo la quale “più de’ carmi, il computar si ascolta” (Ad Angelo Mai).

 

Tuttavia, mi chiedo, ritrovarsi lì, nell’oscurità di quella chiesetta, a fare cosa, di così magico, che a leggerne il ricordo tra queste righe si prova un’emozione sconosciuta, di rimpianto inquietante? A favoleggiare, a narrare eventi e personaggi, si passava il tempo, a “raccontare storie inesistenti, / a guardar le stelle sul cielo luccicanti”. Siamo così giunti al cuore della modernità, anzi della contemporaneità, là dove entrerebbe in crisi il “mandato sociale” dell’artista: l’universo poetico è il primo delle forme espressive a farne le spese, perché meno delle altre consono a compromessi di mercato e alla spettacolarizzazione. Forse inquadrava bene il problema il filosofo russo Michail Lifsič, negli anni Trenta noto tra i personaggi vicini al realismo socialista, ma che il giudizio dei posteri, grazie al suo insegnamento profondo e originale, ha trascinato oltre. Le “favole” o “storie inesistenti” - non realistiche per pretesa, né per confronto - non sono false, poiché “se le rappresentazioni di cui è vivo il nostro pensiero” - e nella conclusione della poesia, lo ripeto, è scritto “sei qui con me”, “nella mia mente” - “e la nostra lingua di per sé sono false, in questa falsità vi è la carne e il sangue della vita reale” (Mito e Poesia,1978).

 

Dunque, se ancora non si conosce l’energia distruttiva che può frantumare il bene di “una stella morta da tanti anni”, in dubbi che non sono telescopici (“Guarda, guarda, che lunga scia”, “e la vediamo adesso, questa notte?”), ma aggressivi, tali da spezzare l’anima, invece una collera contro i pensieri liberi, contro i sogni, sarà poi - purtroppo - in grado di spazzare via le foglie degli alberi forti, da abbracciare prima che diventino matite spuntate non più capaci di trascrivere i nostri desideri. Forse però tutto ciò era già chiaro, perché Saro accettava l’invito senza ribellarsi: “Esprimi un desiderio, / fallo ora in gran fretta, / ché la traccia si spegne e non aspetta”.

Quelle presenze umane, così necessarie, si ritrovano nei pensieri dell’anziano Ungaretti, nel suo Ultimi cori per la terra promessa (1952-1960): “È senza fiato, sera, irrespirabile, / Se voi, miei morti, e i pochi vivi che amo, / non mi venite in mente / Bene a portarmi quando / Per solitudine, capisco, a sera”. Nelle strofe di Santoro, non si vedeva nessuno intorno a spaventare. Nelle cascine lontane non si udiva alcun rumore di porte mentre, ancora ridenti, insieme ai protagonisti, siamo diventati con loro un po’ malinconici: ”Ancora insieme nel buio di Chiesa Pepe / con la campana che ora mesta tace / con le candele spente / spente come i pensieri in testa, / che s'agitano senza trovar pace”.

In un paesaggio marino, forse di giovani pescatori, ancora negli Ultimi cori Ungaretti raccontava di coloro che si inoltravano nelle vestigia di qualche edificio: “Calava a Siracusa senza luna / La notte e l'acqua plumbea / E ferma nel suo fosso riappariva, / Soli andavamo dentro la rovina, / Un cordaro si mosse dal remoto”.

Ma per fortuna, dopo tutto, mi sento di confidare a Saro che non si è spento alcun pensiero, anche se qualcuno ha lasciato consumare le candele e fatto tacere il minuscolo campanile: le immagini delle loro menti, le loro “combinazioni”, vanno avanti rifiutando le censure di massa, si agitano nel contesto senza lasciare lo spazio conquistato.

E, di fatto, Saro si trova lì, accanto a tanti altri, mentre, in un’atmosfera più che leopardiana, “aspettano ancora il dì di festa”.


9 Aprile 2016 - Auditorium Liceo Aritisico Galatina - De coelesti hierarchia - da Salvatore Armando Santoro


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Salvatore Armando Santoro - Presidente

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