Circolo Culturale "Mario Luzi" di Boccheggiano (GR)

https://www.circoloculturaleluzi.net/

I TESTI DEI FINALISTI (2) Bando Città di Montieri 2007)

 

 

Circolo Culturale “Mario Luzi” di Boccheggiano

3° BANDO LETTERARIO EUROPEO 2007 DI POESIA E NARRATIVA CITTA’ DI MONTIERI (GR)

con il patrocinio della Cassa di Risparmio di Volterra

del Presidente della Regione Toscana, della Presidenza della Provincia di Grosseto, della Presidenza della Comunità Montana delle Colline Metallifere, del Comune di Montieri e della Presidenza LAV (Lega Antivivisezione)

 

CHE SI RINGRAZIANO VIVAMENTE

 

Boccheggiano29 Settembre 2007 – Teatro Comunale

 

 

ELENCO DEI PREMIATI

 

Sezione A - Poesia Inedita -

 

1.a Classificata

Angela Ambrosini di Città di Castello (PG)

 

RICORDA

 

Non sperare che acerbo

affetto maturi negli occhi

di chi, viandante insieme a te

di strada, briciole di cielo

strappa al noncurante

volgere del tempo:

indifferenza è insaziabile

che agli altri stinge quieti eventi

all’animo mentre scalciando insonne

tu ti chiedi quale insidia

sia a rabbuiare le gemme

che di giustizia ti porti dentro.

Verranno giorni di tristezza,

ma non sia mai la tua,

lascia agli altri la beffa

di credere che vita vera

sia il vacuo cumulo di faccende

che l’animo loro assedierà

smaniando di nuovo e ancora.

Altro e più tu saprai,

ben altro e vero.

 

 

2.a Classificata

1° Premio Comunità Montana Colline Metallifere tema “La Miniera”

Premio Speciale del Circolo Culturale Luzi al più giovane concorrente

Vannucchi Giulia (9 anni) di Viareggio (LU)

 

SOLE CHE MUORE (La miniera)

 

Mille

e mille

e mille

cupi rimbombi…

 

mille

e mille

e mille

amare ferite…

 

mille

e mille

e mille

gioiose risalite.

 

Tanto nero,

troppo sudore

per tornare

a vedere

il sole che muore.

 

 

3° Classificato

4° Premio Comunità Montana Colline Metallifere tema “La Miniera”

Bruno Amore di Torre del Lago (LU)

 

LA VECCHIA MINIERA

 

Non riesce ad avere aspetto domestico

l’ingresso di quel buco,

non è bocca né porta, né botola.

Solo uno squarcio nella ripa

ancora incolta, lì attorno.

E soltanto la polvere di scavato

portato alla luce, che imbratta

tutt’in giro, tradisce passate attività.

L’adito di un budello, dove sono calati

padri, figli, sposi, tra ansie e paure a

procacciar pane e companatico

spesso bagnarlo di sudore e lacrime.

Pertugio livido d’afflizioni

cunicoli come circoli venosi

dai quali strappar tesori

con mani d’infelici, per far

felici altri, tanti, lontani da lì.

Ferraglie abbandonate qua e là

tralicci arrugginiti di meccanici

attrezzi d’escavazione.

Sauri moderni che sanguinano

solfato di ferro sui terreni

arrossandoli per sempre.

A margine dell’apertura

ad un cippo ormai illeggibile

fiori secchi, stinti giacciono da tempo

copiosi ma vecchi.

Prova di un rito, un omaggio

ad esistenza infranta in quell’antro

poi interrotto da un lutto

stavolta naturale, forse.

 

 

1° Segnalazione di Merito

Angelini Giancarlo di Genova

 

HO SMESSO DI GUARDARTI

 

Te lo avevo già detto che gli anni

mi aggrediscono a tradimento

mentre rileggo le pagine della vita.

 

Non eri ancora nata e già nuotavi

nel ventre di tua madre

che teneva sospeso il cielo

mentre tutte le sere sognava i tuoi primi passi.

 

Nel giardino del tempo perduto

amo di te ciò che è stato

e ciò che di te sarà.

 

Ma anche questo te lo avevo già detto

quel giorno in cui riuscii ad entrare

nel segreto del tuo pianto.

 

Adesso ho smesso di guardarti

attraverso le lenti della fantasia,

 

Che importa quante sono le tue rughe,

il colore dei capelli

e se il tuo corpo non ha più vent’anni.

 

Senza di te non ho ali per volare.

 

Oggi il nostro amore è silenzio trasognato,

è sale azzurro, è magica stagione.

 

Ubriaca l’odore del tuo corpo

quando sei vicina.

 

Immaginare di sfiorare con le labbra il tuo seno

è come bere la voglia di te.

 

Entri di soppiatto nella segreteria telefonica

con la voce che mi innamora.

 

Il tempo ci sovrasta

in ore nuove.

 

Noi due

e più nessuno manca.

 

 

2.a Segnalazione di Merito

Ana Maria Caliyuri di Santamarina (Argentina)

 

PALABRAS

 

Las palabras

nacieron con el hombre

se reproducen

se transforman

se unen

se desligan.

Las palabras

abren caminos

convocan almas

generan sensaciones

describen bellezas

cuentan horrores.

Ellas sobreviven

al holocausto

a la barbarie

al desatino.

Denuncian.

Las palabras

tienen la virtud

de la misericordia

trasformándose

en historias.

 

PAROLE

(Traduzione)

 

Le parole

nacquero con l’uomo

si riprodussero

si trasformarono

si unirono

si disgiunsero.

Le parole

aprirono la strada

convocarono le anime

generarono le sensazioni

descrissero la bellezza

raccontarono gli orrori.

Esse sopravvissero

All’olocausto

alla barbarie

alle assurdità.

Denunciarono.

Le parole ancora

hanno la virtù

della misericordia

perchè si trasformano

in storia.

 

3° Segnalazione di Merito

5° Premio Circolo Culturale Luzi con tema “La Miniera”

Simone Alfonsi di Senigaglia (AN)

 

ANIME NERE

 

In fondo a cunicoli orfani di luce

così come negli occhi intorpiditi di polvere e di fumo

resta un po’ di quella vita faticosa di miniera

che io vedo

la stessa che ho avvertito nei brandelli dei vestiti

che ho letto nelle facce di anime nere rovinate dalle rughe

di chi ne ha scritto la memoria

senza averne in cambio

amandone d’istinto l’umido silenzio ostile

che anche adesso scava dentro

in cerca d’aria e di cielo

ogni sudato centimetro

ogni più piccolo dolore

ogni briciola di vita austera

 

Nell’illusione amara che gli stenti

in quel profondo mondo

risanino al fine da tanto vuoto

ripaghino di tanto buio con il cristallo di un sorriso

 

Ma intanto resto a fissare quelle fauci scure puntellate

che inghiottono per sempre uomini e respiri

segnandone il destino tanto

quanto da questo vien segnata

e nonostante cerchi adesso le parole

riesco a darne un senso

 
PRIMA SEGNALAZIONE DI MERITO GIOVANI

Agnese Guernieri di Prato (12 Anni)

 

INGIUSTO

(Dedicato ai morti nei campi di sterminio nazisti)

 

Ingiusto.

Sono qui nella polvere,

mi vedi?

Sono qui nel vento,

mi senti?

Sono vento, sono polvere,

sono un’anima.

Veglio su questo mondo

ingiusto.

Vedo chi piange, chi ha paura,

chi sogna una pace

che non verrà mai.

Ingiusto.

Mille e mille siamo nel vento

che vegliamo.

Mille e mille siete in terra

che sperate.

Via! Nella polvere i campi.

Nella polvere l’odio.

Le guerre, la morte.

L’ingiusto nel mondo

con noi, nella polvere.

 

 

1° Segnalazione

6° Premio Circolo Culturale Luzi con tema “La Miniera”

Danilo Valerio Girardi di Cavaion Veronese (VR)

                           

 

STE MANE NERE…

 

Bate forte el cor,

pesante te respire,

come se na piera, grossa,

te schissa stomego,

ma sensa perda tempo,

nar drento quel buso

che sconde el sol,

e perde, del ciel ,el color..

 

Te vardo creatura,

te crese empresia,

te vol ciapar tuto

co le to mane bianche,

embriaghe de

oia de cresa,

manine che stona visin le mie

nere e sporche

de tera e malumor.

 

Ma varda buteleta,

vardele ste mane

de cai empiombeghè,

de segni fondi

ormai segnè,

ma vardele pardio

tanto nere che no pol

gnanca far carese,

anca stasera ta portà,

ste mane, en toco de pan.

 

 

 

QUESTE MANI NERE..

 

Batte forte il cuore,

manca l’aria e

respiri con fatica,

come se una pietra, grande

schiacciasse il tuo ventre

ma senza perdere tempo,

ti infili nella miniera

e nasconde il sole

e non vedi, del cielo, il colore..

 

Ti guardo bambina,

cresci in fretta,

vuoi prendere tutto

con le tue mani bianche,

ubriache di

voglia di crescere,

mani che stonano vicino le mie

nere e sporche

di terra e del moi cattivo umore..

Ma guarda bambina,

guardale queste mani

di calli stracolme,

di segni profondi

ormai segnate,

guardale per amor di dio

tanto sono nere che non possono

neanche fare carezze,

ma anche questa sera, ti portano

queste mani, un pezzo di pane.

 

2.a Segnalazione

Fortunata Morabito di Reggio Calabria

 

LA GIOSTRA

(della mia infanzia)

 

Dalla giostra sono scesa

Quando? Come? Non lo so!

Non ricordo più il galoppo

Dei cavalli impennacchiati,

volteggianti, dondolanti,

con la musica mielata

che scavava dentro il cuore.

Me ne stavo accoccolata

Nella vecchia diligenza,

e inseguivo dal mio cocchio,

gli occhi pieni di allegria,

lievi tracce nella mente

giovinezza e fantasia.

Da lassù orbitava il mondo,

ero avvolta da magia,

da una gioia che mi prendeva

da un piacer che m'assaliva.

E guardavo, lì d'accanto,

l'ambulante e i palloncini

rossi, gialli, verdi e blù

come se nel cielo andasse

e sparisse tra le nubi

dentro il cielo cristallino

attaccato ai suoi palloni.

Ed il tempo vola in fretta,

come giostra ruota, ruota,

l'incantesimo s'è rotto

e il mio sogno è già svanito,

pur la favola è finita.

 

 

3° Segnalazione

7° Premio Circolo Culturale Luzi con tema “La Miniera”

Maria Gisella Catuogno di Portoferraio (LI)

 

CAMMINANO IN SILENZIO I MINATORI

 

Il cielo si libera dal buio della notte

come d’un vestito a lutto

troppo a lungo indossato

e il mare addormentato

lentamente si desta

al bussare dell’alba

che impallidisce le stelle

con la sua fioca luce.

Camminano in silenzio i minatori:

nel cuore ancora il letto tiepido

in mano il conforto del convìo*

unico viatico alla fatica nera

che in agguato li aspetta.

È pane guadagnato

dal sudore che cola dalla fronte

ed offusca la vista;

dal corpo che vacilla

ai colpi di piccone

o sotto il peso di coffe* e di vagoni

scintillanti di ferro e terra rossa.

Alto, il sole morde la pelle ai minatori

e annerisce le schiene curve

le mani callose, i volti seri:

non solo d’uomini fatti

avvezzi al duro quotidiano

ma pure di ragazzi, bambini quasi

strappatiai libri , ai giochi, ai baci delle madri.

E quando arriva l’ora del congedo

il sole si prepara ormai al tramonto:

spremitura di rosso là nel cielo

che guida i minatori nel rientro.

 

Convìo: termine elbano che indicava il modesto pasto del minatore, dentro un pentolino d’alluminio.

Coffa: corbello (dall’arabo quffa, cesta) che, riempito di minerale di ferro, veniva portato a spalla dai minatori

 

 

1° Segnalazione Circolo Culturale Mario Luzi

Gerardo Grimaldi di Caivano (NA)

 

NAUFRAGO DA UNA VITA

 

Nel grigior del mio tempo

verso oscure mete mi persi

illumina l’arida alma

petali di primavera

d’arcobalenoi miei giorni colorasti

dolce tenera compagna

scrosciante ruscello

melodia di un passato mai spento

Ci travolse un dì innocente lo sguardo

t’amai come naufrago la sua terra

l’essenza di una vita rivissi…

La vita

grande altalena la vita

mi ritrovo solo con me stesso

vola il pensiero

caldo il respiro ci tenea svegli

dell’alba l’attesa ti rendea ancor più bella

Or sei lì, lo so

immenso l’universo t’accoglie

di luce brilli

stella fra le stelle

Amico il sogno, m’accarezzi

e baci la fronte

atroce pesoil mio avverso destino

ancor più solo, naufrago

perso nel vuoto

della tua eterna assenza.

 

2° Segnalazione del Circolo Culturale Mario Luzi

Zanoia Paola di Verbania

 

LASCIATEMI ANDARE ORA

(a P.Giorgio Welby)

 

Nemmeno questa

rabbia furiosa

basta a muovere il mio braccio

per spegnere

quel respiro meccanico

nell'inutile mio tempo.

 

Nel corpo fermo

l'anima brucia

come i miei occhi di brace

stanchi di chiedere intorno.

 

Non sono io quell'ombra nel letto

così immobile nell'urlo continuo

del dolore.

 

Io sono altrove

a cercare la quiete,

l'inizio e la fine

dell'essere uomo.

 

Lasciatemi andare, ora

di tutto quel che ho perso

rivoglio solo

la mia libertà.

 

3° Segnalazione del Circolo Culturale Mario Luzi Domenica Parrino di Reggio Calabria con la poesia “Impunità”

 

IMPUNITA’

 

Era tempo di guerra,

si, il tempo dell’ultima guerra.

Dal cielo… piovevano bombe

sul nostro rione, sulla nostra città.

Mio padre prudente

decise di andare lontano

e prese in affitto una linda casetta,

isolata, in aperta campagna.

Ai primi tepori d’aprile

le lucertole me ne stavo a guardare,

che avevan lasciato da poco il letargo

e pigre oziavano al sole,

sui sassi,

strisciando appena sui vecchi gradini.

Con un coltello sottratto in cucina,

con fare furtivo, prudente,

con gesto cattivo,

io, zac,

tagliavo loro la coda.

E poi me ne stavo incantata

a fissar quel moncone ondeggiante,

agitarsi, contorcersi,quasi alterarsi,

in cerca del resto del corpo,

perduto, fuggito distante.

Ma poi m’assaliva il rimorso,

temevo mia madre vedesse,

m’urlasse seccata

per quella mia crudeltà,

incosciamente operata.

E pensavo al dolore provato,

dalla lucertola in corsa,

che dopo sostava stordita

e mi osservava guardinga, stupita,

quasi a leggermi dentro

il rimorso che lieve saliva,

e che mi scuote ancor oggi

pensando a quell’azione malvagia,

rimasta impunita,

inseguendo un sogno lontano,

ed una bambina che stringe un coltello,

che ancora gli brucia la mano.

 

Premio Speciale del Circolo Culturale Luzi

per la più giovane concorrente di Montieri

Miriam Groels

 

Questa poesia è dedicata alla fame, all’ingiustizia e al razzismo in questo mondo.

IL TRENINO

 

Un bambino gioca

con un trenino

in una grande casa.

Lui viene amato e protetto,

ha tante cose e può averne ancora.

 

Un bambino gioca

con due bastoncini

sulla strada.

Lui è solo,

non viene amato da nessuno,

perché non ha nessuno.

Non ha niente e non può averne nulla.

 

Ogni giorno vede

il bambino della casa vicina

andare a scuola,

lui non può, non ha soldi.

Lo vede mangiare cose buone,

vorrebbe anche lui

ma non può, non ha soldi.

Vede il bambino bere acqua pulita,

lui non sa cos’è,

conosce solo acqua sporca.

 

Sono due bambini della stessa età

uno soffre mentre l’altro sta bene,

solo perché hanno un colore diverso della pelle,

questa è l’ingiustizia che regna in questo mondo.

 

Sezione A – Narrativa Inedita -

 

1.a Classificata Sezione Narrativa inedita

Marina Tognoni di Firenze con il racconto “Loretta”

 

LORETTA

 

Sì, lo so mamma.

A volte non riesco a staccare gli occhi da questa fotografia sbiadita che porto con me. Dovrei metterla dentro un cassetto o, tuttalpiù, in una cornicettaattaccata al muro di camera mia. Dovrei guardarla una volta ogni tanto, perché il tempo va e va, senza fermarsi mai e perché la vita di ognuno di noi cammina senza girarsi indietro.

Sì, lo so.

Ma non posso fare a meno di parlarti ancora, mamma, e di guardarti sorridere, così giovane, da quel cartoncino ingiallito. Di osservare come portavi i capelli sciolti sulle spalle e di ammirare per mille e mille volte le tue gambe nude e la tua vita sottile stretta in quei pantaloni corti da mare: sarà stato luglio…o agosto?

Com’eri bella, mamma.

Linda e io uscimmo da te che non ci desti il tempo di conoscerti, perché non avesti nemmeno la forza di abbracciare me e mia sorella per la prima e per l’ultima volta.

Te ne andasti in tutta fretta dalla nostra casa di via Romana e babbo non si capacitava di quanto fosse successo. Nonna e zia Flora ci presero in braccio quella notte e si guardarono senza avere il coraggio di scambiarsi una parola. Nostra sorella Maddalena stringeva la mano di babbo e, a tre anni e mezzo, non sapeva cosa fosse quello smarrimento che avvertiva gelido nel suo cuore: mai come in quel momento ti desiderava, mamma, e non comprendeva.

Quante volte te ne ho parlato?

Avevamo bisogno di latte e furono cercate due balie: una abitava nella nostra strada, ma l’altra stava lontano da noi. Dissero a babbo che si trovava dalle parti del Galluzzo, vicino all’abitazione di zia Iolanda. E così fu tirato a sorte: toccò a me andarmene di casa.

Mi vedevi, mamma?

 

La tua zia Iolanda e zio Mario, già così vecchi, aprirono le braccia a quel fagottino di panni e mi presero come si accetta un dono che sorprende.Fui felice con loro, ma solo come si può essere felici senza mamma, senza il suo odore protettivo: come è felice e ignaro un animaletto raccattato. Crebbi in via del Gelsomino.

Babbo era ancora così giovane…così giovane…

Il fascino e l’eleganza della bella signora gli stregarono l’anima, così la sposò e andò a vivere con lei portandosi Linda e Maddalena. Fu un dolore senza fine per le mie sorelle: addio a nonna, addio a zia Flora, più spaventate di loro mentre le guardavano allontanarsi da via Romana e da tutto quel mondo di borgata fatto di povera gente.

Zio Mario, ogni domenica, mi portava a pranzo da nonna Maria e zia Flora mi stringeva forte e mi raccontava le fiabe. Non fu così per le mie sorelle; a loro venne proibito di avvicinarsi alla nostra famiglia, perché la matrigna era rosa dalla gelosia e non voleva che altro parlasse a babbo di te.Qualche volta, però, zia Iolanda, affrontando la stizza della signora, mi vestiva bene e mi portava a trovare le mie sorelline. Prendevamo il tram da via Senese, si attraversava l’Arno e si scendeva nel centro, in mezzo alla gente e alle vetrine dei negozi.

Che lungo viaggio mi sembrava, mamma!

Entravamo in quel grande portone e zia mi faceva sedere sul primo scalino per cambiarmi le scarpe: mi toglieva quelle bianche, pulite di fresco con la biacca e me ne infilava un paio marroni, più vecchie, così Linda non ci rimaneva male, diceva, a vedermi più elegante di lei. Mi sistemava il fiocco sui capelli, mi dava un bacino sulla fronte e salivamo. Babbo era sempre un po’ teso e la signora sorrideva di rado. Le mie sorelle, però, mi abbracciavano forte e in quell’attimo sembrava che non ci fossimo separate mai.

Ti ricordi il mio primo giorno di scuola, mamma?

 

Zio Mario mi portava per mano tutte le mattine e le mie compagne mi chiedevano perché con me venisse sempre il mio nonno invece che tu o babbo. Zia Iolanda ci metteva tutto l’impegno di cui era capace nell’aiutarmi a fare i compiti e mi preparava delle gran merende, anche se io crescevo mingherlina, non ripagando molto i suoi sforzi in questo senso. Maddalena e Linda frequentavano una scuola del centro invece; spesso nonna e zia Flora andavano insieme, di nascosto, all’uscita delle lezioni cercando con gli occhi, anche per un attimo, le loro nipoti nella ressa della scolaresca. Se ne tornavano verso via Romana, poi, e sembravano più vecchie che mai.

Avevo nove anni, quando babbo e la signora cambiarono casa sistemandosi in una più grande… Non dimenticherò mai il giorno in cui zia e zio mi dettero la notizia e mi rimarrà impressa nella mente finchè vivrò l’angoscia che lessi sui loro visi: nella nuova casa c’era posto anche per me. Non valse la mia disperazione e non valsero ipianti; non mi furono d’aiuto le parole di quei due vecchi più disperati di me. Prendemmo il tram zia Iolanda e io e attraversammo di nuovo l’Arno, ma questa volta con noi c’era una valigia.

Mamma, dov’eri quel giorno?

Dov’eri quando fui costretta a dire addio a zio Mario, a zia Iolanda, a nonna, a zia Flora, alla mia piccola vita per sempre?

Furono anni tristi quelli che seguirono: diventammo grandi io e le mie sorelle senza affetto, se non quello forse sincero, ma distante di babbo: eravamo però legate da un amore talmente forte e disperato, che ci protesse in qualche modo dalla crudeltà della signora. Mi ricordo che il sabato babbo rientrava con un vassoietto di biscotti secchi che comprava in una pasticceria di via della Vigna, ma non mi rammento di averli assaggiati mai: lei regolarmente li chiudeva nella credenza e se li mangiava da sola quando credeva di non essere vista….ma noi la vedevamo sempre e facevamo a gara a chiederle le cose quando aveva la bocca piena ed era costretta a risponderci a monosillabi rischiando di strozzarsi per doverli ingoiare interi.

Che ridere, mamma!

 

La domenica, loro due andavano al cinema: lei si metteva tutta in ghingheri. Mai che ci avessero portate con loro. Da dietro la finestra, li vedevamo uscire a braccetto,attraversare la strada e girare l’angolo; restavamo per un attimo così, tutte e tre col naso appiccicato al vetro, ma poi davamo libero sfogo alla nostra vendetta. Entravamo nella loro camera da letto e aprivamo l’armadio della signora: era come tirare il sipario di un teatro. Facevamo man bassa dei suoi abiti e ci vestivamo come regine; riempivamo di stracci la punta delle sue scarpe, sempre dai tacchi alti, le indossavamo e davamo inizio a una sfilata di alta moda dopo esserci dipinte le labbra coi suoi rossetti. Qualche volta azzardavamo una sortita sotto casa, ma smettemmo quando una vicina minacciò di riferire tutto a nostro padre. Rimettevamo poi ogni cosa in perfetto ordine e lei non se ne accorse mai, anche se non ci sarebbe dispiaciuto che le fosse presa una colica di bile almeno una volta, ma siccome in quegli anni non eravamo passate indenni dalle sue mani, considerammo sempre che non sarebbe stato il caso.

Tutte le sere dovevamo apparecchiare la tavola in modo ordinatissimo: lei notava ogni cosa e poi, sull’igiene, era così schizzinosa!Noi ubbidivamo alla lettera…ma quando era in cucina, appoggiavamo il suo piatto in terra e ci strusciavamo sopra le suole delle scarpe…poi gli davamo una soffiata e lo rimettevamo sulla tovaglia.

Mamma, non immagini che gioia vederle sorbire il brodino!

Finite le scuole medie, fummo mandate a lavorare tutte e tre, ricordi?

Per noi fu una specie di liberazione stare fuori di casa tutto il giorno. La prima a fidanzarsi fu Maddalena, subito dopo, Linda. Si sposarono presto.

Ci ripensi, ogni tanto, al giorno di nozze di Maddalena, mamma?

Nonostante il disappunto della signora, zia Flora, zia Iolanda e zio Mario erano in prima fila; purtroppo nonna non c’era più, ma era presente lo stesso… insieme a te.

Rimasi io, sola… e fu come quando, appena nata, venne tirato a sorte.

 

Quante volte fissai la tua immagine su questa vecchia foto, come se avessi voluto entrarci e farne parte con te. Quante volte ti chiesi aiuto.

Poi arrivò Franco e anch’io mi sposai.

La signora rimase sola dopo la morte di babbo e, stranamente, provai una specie di affetto per quella donna ormai anziana, così che le stetti accanto, come potei, fino all’ultimo.

Sono mamma anch’io di un ragazzone biondo e allegro come suo padre… ma, a volte, dentro di me, riaffiora quella bimbetta dalle gambe magroline e dal grande fiocco appuntato sui capelli e, allora, ti ripenso, mamma e ti guardo sorridermi da dentro quel cartoncino color seppia.

Chiederò a Franco di ritrarti coi suoi pennelli, come lui sa fare e appenderò il quadro nell’ingresso di casa, insieme agli altri e qualche volta, forse, non ci farò nemmeno caso.

Sono cresciuta, mamma.

Porto lo stesso tuo nome….io sono te.

 

2° Classificato

3° Premio Comunità Montana Colline Metallifere tema “La Miniera”

Raffaello Spagnoli di Castenedolo (BS)

 

SPIRITI DELLA TERRA

L’uomo guardava spiaggia e mare avidamente, come ad assorbire attraverso gli occhi il passato e il presente, in un processo inesausto che lo caricava di immagini e, soprattutto, di luce. Tossì. Un accesso di quella sua tosse furibonda e sibilante, che veniva dalla profondità sofferente del suo essere. Dovette chiudere gli occhi ed i colpi di tosse gli fecero esplodere lampi dentro le palpebre chiuse. Involontariamente si coprì le orecchie con le mani in un gesto istintivo imparato negli anni, in attesa della cupa esplosione che sempre seguiva al lampo, laggiù. “Laggiù” voleva dire ripetere ogni volta, all’inverso, il percorso della nascita, un tuffo attraverso l’utero del pozzo fino al ventre della terra, che non era una madre. Si saliva sul montacarichi salutando il buio ma senza averne una vera cognizione, interpretandolo come una dimensione della luce del giorno ed il poderoso ingranaggio si metteva in moto. I tonfi delle ruote dentate misuravano i tonfi del cuore e la gabbia in cui le loro vite erano chiuse si faceva soffocante. Come se fossero stati chiusi in una cella, ascoltavano il sibilo del proprio respiro, con la parete scabra del pozzo a misurare la distanza reale tra il giorno e la loro notte personale, eterna. Il lume dava ai volti un’espressione irreale, spettri angosciati destinati a sciamare nelle lunghe, lugubri gallerie, come ad atterrire i propri stessi sogni. Poche parole, tra loro. Poco fiato da sprecare. Poca aria. La gabbia si fermava in un improvviso, irreale silenzio. Quel non suono sembrava sempre cristallizzarsi in un millesimo di secondo in cui tutto, anche il cuore, si arrestava. Un nulla solenne in cui, come qualcuno diceva, lo spirito della terra aleggiava nel pozzo, all’intersezione delle gallerie, veniva a valutarli, a soppesarli, decideva se e chi dovesse essere sacrificato, se e chisarebbe tornato lassù. Qualcuno diceva fosse Dio ma i più sostenevano che Dio ignorasse i minatori, non li vedesse, non li volesse vedere perché se ne stavano laggiù, nel buio e nel pericolo, anziché pensare al cielo. Ma a quale cielo potevano pensare gli spettri della terra? Loro non lo conoscevano, il cielo. Solo raramente lo potevano vedere, quasi mai nel pieno fulgore del giorno, quando il sole gratta i tetti o, con dita insinuanti, accarezza la schiena delle donne intente alle proprie faccende. Che avevano a spartire, iminatori, con il cielo? Bastavano le loro donne, per mantenere i contatti con quel Dio che andavano a pregare mentre loro, là sotto, si dedicavano al loro lavoro di talpe. Si alzò dalla sabbia e si spazzolò la pelle dalle migliaia di granelli che vi si erano incollati. Il suo contatto con la vita ed il mondo era stata sua moglie, quella ragazzina tutta occhi che aveva intravisto un giorno, mentre rincasava, alla fine del turno di notte. Lui era rimasto quasi fulminato da quegli occhi sgranati che lei si era affrettata a chiudere ed a distogliere dai suoi, come timorosa che gli occhi di lui se li bevessero. Ci aveva messo anni ad impadronirsi di quegli occhi e del corpo di cui facevano parte. Quando aveva attraversato la soglia della loro casa, con lei in braccio, sapeva di nonaverla ancora domata. Non ne aveva conosciute altre, così, e la sfida lo aveva intrigato. In realtà, stava pensando ora, non era mai stata sua. Eppure era stata una compagna leale, affidabile, volonterosa. Anche nei momenti della passione più feroce, quando sembrava che solo i corpi avessero voce, quando lei gli si abbandonava senza riserve poteva sempre percepire che una minuscola parte di lei, segreta, nascosta, sprofondatachissà dove, gli veniva negata. Ogni volta era sceso nel pozzo con una specie di ansia, una fretta di riemergere verso di lei, che aveva accelerato i giorni, gli anni... fino a quel giorno in cui, rincasando, aveva trovato le stanze ordinate, pulite, quasi profumate ma desolatamente vuote, deserte, senza suoni e senza vita. Era rimasto raggrumato là fino a quando la tosse era venuta a farlo scoppiare fuori dalla sua immobilità. Così l’aveva trovato Fabio, un amico suo, quando era venuto a cercarlo, in allarme per non averlo visto all’ospedale mentre parenti ed amici erano là. La sciagurata non gli aveva detto nulla. Si lavò e si cambiò in fretta e, con la vecchia Lancia Aurelia di Fabio, corsero all’ospedale. Lei era sdraiata con il viso rivolto alla finestra e non si girò. La raggiunse e, presole con una mano il volto, la fece girare e le stampò un lungo bacio sulle labbra. – “Faremo i conti dopo” – la minacciò a fior di labbra. Lei lo respinse adagio ma con decisione e, guardandolo negli occhi, rispose –“ Avessi mai capito niente!” –Gli altri, in sordina, erano usciti. Lui le chiese –“Che hai?” – e intanto il cuore gli dava tonfi di campana tra le costole. Lei abbassò lo sguardo -” Ho un cancro che mi si sta mangiando la pancia, l’utero.” – Lo disse con voce ferma, un annuncio di morte che sembrava lei avesse letto sopra un muro, come un annuncio funerario di altri. –“Perché non mi hai mai detto nulla? Chi sono io, per non sapere che mia moglie sta male? Pensavo che te ne fossi andata.... farmi trovare casa come un sepolcro e sparire così. Che può pensare uno che torna dal lavoro? che ne può essere stato di mia moglie?” – E poi scoppiò a piangere, mentre il veleno della notizia gli si spargeva nelle vene. La mano di lei gli carezzò la guancia ruvida, poi risalì ai capelli e glie li afferrò rudemente, alzandogli la faccia: - “Che fai, ora? E’ così che fa un uomo?”- e con uno strattone gli spinse indietro la testa. Come se fosse stata offesa duramente, si volse nuovamente verso la finestra, dandogli la schiena. Lui si era alzato, si era asciugato le guance e gli occhi, si era ricomposto. –“Vedi di far presto, allora, che ti rivoglio a casa quanto prima!”- Così era iniziata la salita al calvario. Lei era stata operata – un lungo squarcio fatto con il poco riguardo che compete ai poveri – e tutto il suo miserabile essere era stato suddiviso, come in un inventario di organi buoni e di organi da buttare, sezionato, ricucito e rimandato a casa. Lui aveva iniziato in quel periodo a fare il doppio turno ed aveva imparato l’arte del bombardiere. Glie l’aveva insegnata il vecchio Toni, un minatore d’altri tempi e d’altra tempra, grande bestemmiatore che professava, comunque, una fede fervida e una fiducia cieca nella dinamite, che sapeva governare con una sensibilità ed una precisione impagabili. Erano stati una squadra eccellente ed affiatata ma lui faceva il bombardiere solo di primo turno, dopo, troppo stanco e distratto non maneggiava esplosivi. Quando lui e Toni minavano una galleria, si poteva star certi che il lavoro avrebbe reso e con pochi rischi. Finito il primo turno lui imbracciava pala e piccone e si univa alla squadra, nelle gallerie, per un lavoro che richiedeva solo muscoli e prudenza e lasciava il tempo per pensare. Quella sua moglie ribelle e dai larghi occhi era diventata, col passare dei giorni, un fantasma vacuo e quasi inconsistente che lui trovava, a fine turno, impigliato nelle lenzuola di quel letto che era divenuto enorme, come una piazza dove nessuno passeggia mai. Di lei era rimasto un magro rigonfio sotto le lenzuola, due mani di un bianco giallastro che lui non riusciva quasi a scaldare e la voce asciutta che gli dava istruzioni, consigli, ordini. Venne un medico che gli costò metà mese di paga. Disse che aveva bisogno di applicazioni di cobalto per bloccare il male. L’accompagnò Toni, all’ospedale, al Centro Alte Energie. Videro la donna sdraiata su un lettino, inghiottita da una porta sulla quale erano stampati decine di divieti. Quando uscì fu quasi incredulo di rivederla uguale e la accompagnò in corsia massaggiandole le mani con le sue ruvide, dure mani nere. Lui seppe in quel momento che sua moglie, quella sua fiera e misteriosa moglie, lo stava per lasciare senza svelargli nulla dei suoi segreti, senza lasciargli nulla – non avevano avuto tempo neppure per un figlio – senza confidargli nessuno dei suoi sogni o delle sue delusioni.Al lavoro, con Toni si scambiavano frasi brevi, in quel loro linguaggio che solo loro comprendevano. Loro due soli si trovavano in ospedale quando lei morì. All’inizio lui provò solo sollievo per lei che, con la mano ora trasparente stretta nella sua, aveva smesso di soffrire. Le abbassò le palpebre con le sue ruvide, nere dita e, in quel gesto che escludeva i grandi occhi di lei dal mondo, sentì l’artiglio del dolore che gli attraversava tutto il corpo, dai piedi ai polpacci all’inguine al ventre al torace alle braccia alla testa, un fulmine che gli saettava tra i capelli e si perdeva in alto, oltre il soffitto della stanza, oltre il tetto dell’ospedale, oltre le nuvole, chissà dove, in chissà quale vuoto siderale per poi tornare indietro a schiantarlo. Il suo urlo di dolore risuonò nei corridoi, fece accorrere medici ed infermieri, fece rabbrividire un prete che si affacciò alla stanza ma lui non c’era più. Aveva coperto col lenzuolo quella sua piccola moglie e se n’era andato, trascinandosi dietro Toni. Non erano andati in un bar o a casa. Insieme erano scesi nel pozzo, avevano imboccato l’ultima galleria e, spinti fuori gli uomini al lavoro, avevano preparato i fori, le micce, le cariche, i collegamenti ed avevano provocato una esplosione che era divenuta leggendaria, raddoppiando la profondità della galleria, lasciando pareti tanto levigate da sembrare finte, lasciando materiale tanto frantumato da sembrare già semilavorato. Dopo, solo dopo, erano usciti dal pozzo ed erano andati a prepararsi per il funerale.

Tanti anni erano passati da quel giorno ed ora lui, dopo aver passato l’ennesima visita per quei maledetti polmoni, si era sentito dire dal medico “Tre, forse sei mesi.” Aveva chiesto “Sarà doloroso?” e l’altro aveva alzato le spalle ed aperto le braccia, denunciando la propria ignoranza.Aveva chiuso casa, senza rimpianto, spettro della terra che si stava preparando ad affrontare l’ultimo pozzo, uno spettro senza un nome, come tutti quelli che, ad ogni turno, si calano nel buio senza sapere quale luce li attenda.

 

3° Classificato

Renato Pisani di Roccatederighi (GR)

 

DUE OLIVE

 

Si erano conosciute fin da piccole, o, per meglio dire, quando ancora erano in fiore, in quel periodo di primavera che, sulle colline della maremma, la gente, ancora oggi, è solita dire: “ Quest’anno gli olivi hanno parecchia trama”.

Il caso volle che lei fosse un’oliva femmina e lui un’oliva maschio. Così finirono per amarsi, intensamente e, in una notte di luna piena, testimoni un maestoso barbagianni e una giovane istrice, si sposarono, giurandosi eterna fedeltà e solidale vicinanza.

Quanto era bello il poggio dove erano nate e quanti olivi, tutto attorno, con molte siepi colorate e tante querce, maestosecome cattedrali, in mezzo ai campi!E quanto era lieve il vento che veniva dal mare, sul far della sera, e faceva ondeggiare i rami, avanti e indietro, come fossero un’altalena e di notte li cullava, dolcemente, mentre i grilli, tutt’attorno, cantavano la più soave delle ninne nanna!

Erano felici, ma a dire il vero tutte le olive sono felici perché a nessuna è precluso l’incontro con la propria anima gemella e così, nozze dopo nozze, ogni pianta d’olivo diventa un piccolo paese dove le foglie sono le case e i rami le strade, ma ci sono anche le piazze, la scuola e qualche piccolo negozio.

Le due olive però erano speciali e si distinguevano dalle altre perché, oltre ad amarsi un quel modo, erano due olive poeta e qualche volta facevano della filosofia; altre si ponevano delle domande, senza darsi risposte, guardando il cielo, sopratutto la notte. S’interessavano di tutto e non c’era uccello, ape o farfalla che si posasse vicino a loro perché non ne approfittassero per qualche domanda:

- Scusa, non per essere curiosi, ma nei campi vicini cosa succede? E laggiù, oltre la pianura, dove si vede il mare, tutto bene?

Appena passato il tempo della pubertà, quando dal fiore prese a formarsi il nocciolo, le due olive trovarono giusto darsi un nome e non tanto perchétemessero di non riconoscersi fra tutte le altre, ma per chiamarsi, caso mai una di loro si fosse staccata dal ramo e fosse finita nell’erba alta.

- Quale nome vorresti che io avessi? - chiese, una mattina, l’oliva femmina, oramai quasi donna, al suo compagno, oramai quasi uomo.

- Mi piacerebbe Margherita, come quei piccoli fiori dietro la siepe, che solo a guardarli mi colmano il cuore di gioia e di lacrime gli occhi. Ma tu sei più bella di qualsiasi fiore.

- Se vuoi - disse a sua volta Margherita, commossa -, il tuo nome sarà Sirio.

- Sirio come la stella?

- Come unadelle stelle piùlucenti!

- Non darmi meriti che non ho.

- Oh Sirio: quanto è bello essere vivi!

Andarono avanti così per alcuni mesi e tutto appariva bello perché il sole era caldo e quando pioveva lo faceva piano e l’acqua sembrava una doccia che gli toglieva di dosso alcune briciole di polvere. Non conoscevano il freddo. La notte s’accendevano le stelle e loro, mano nella mano, potevano sognare, a testa in su.

- Sirio, quanto è grande il cielo?

- Infinito.

- Infinito?! Significa che non finisce mai?

- Che non finisce mai.

- Come fa a non finire mai?

- Una grande sfera! Ovunque guardi vedi il cielo: cielo, cielo…

- Ma attorno alla sfera?

- Attorno alla sfera.. altro cielo.

- Questa storia dell’infinito non riesco a capirla.

- Nemmeno io! - ammetteva Sirio, contrariato- Davvero non riesco a spiegarla.

- Ci saranno tanti olivi dentro il cielo? - continuava Margherita.

- Sicuramente si.

- Infiniti?

- Finiti!

- Finiti?!

- Solo il cielo è infinito.

- E Dio?

Questa era la domanda che più stava a cuore a Margherita.

- Dio.. Dio ci sarà da qualche parte- rispondeva di solito Sirio.

- Sarà fatto a nostra immagine e somiglianza?

Sirio si grattava la testa.

- Penso che sarà fatto ad immagine e somiglianza degli esseri umani..

La risposta non trovava d’accordo Margherita.

- Perché come gli uomini? Io penso che Dio sia un grande olivo, il più grande di tutti. Infinito!

- Sono gli uomini che, per sentirlo più vicino, fanno le chiese, scrivano di lui in grandi libri e guarniscono le preghiere di belle parole..

- A me gli uomini sono molto simpatici.

- Anche a me..

Un giorno Margherita e Sirio si svegliarono di soprassalto. Non avevano mai sentito il vento, tanto forte, che aumentava di momento in momento. Non veniva dalla parte del mare, ma da dietro la collina, alle loro spalle, freddo e impetuoso. Margherita cominciò a tremare e anche Siro. I rami dell’olivo si piegavano, senza un attimo di sosta, e gemevano con delle urla strazianti e a tratti di rassegnato sgomento. Anche il tronco si contorceva come un filo d’erba e si poteva pensare che, da un momento all’altro, si sarebbe spezzato in due. Le altre olive, strappate dal picciolo, venivano scagliate in aria e dopo aver vagato in mezzo a un turbinio di foglie, ricadevano lontane, nella siepe o sul prato, prive divita.

- E’ la fine Sirio! E’ la fine. Adesso cadremo anche noi.

- Abbracciamoci forte Margherita. Moriremo insieme.

- Non voglio perderti.

Si strinsero l’uno dentro l’altro. Chiusero gli occhi aspettando il doloroso distacco dal ramo, poi quel folle volo nell’aria ed infine lo schianto sulla terra. Forse i loro cuori battevano forte, ma non fecero in tempo ad ascoltarli, le orecchie erano rintronate dalla voce impazzita del vento.

Quando Margherita e Sirio rividero la luce il sole si stava per nascondere dentro il mare, con una macchia vermiglia tutt’attorno. Pensarono che si trattasse del loro sangue, ma stavano ancora appesi al ramo che dondolava nell’aria.

La loro vita non fu più come quella di prima. Ebbero ancora il tempo per gioire delle stelle e di fare mille discorsi attorno a Dio, ma avevano imparato che, da un momento all’altro, qualcosa poteva accadere, e ritrovarsi, per sempre, divisi e dispersi. L’estate, comunque, fu bella. Bello fu anche l’autunno che portò nuovi colori e profumi di ogni sorta. Margherita s’era fatta la pelle tirata e sembrava matura. Sirio aveva messo qualche capello bianco, ma giusto uno, in qua e là. Quasi s’erano scordati del vento forte, fino a quando, un giorno, nel prato venne il contadino con due lunghe scale a pioli, dei sacchi, un grande telo e la sua donna, con le mani bianche e affusolate. Margherita e Sirio li guardarono incuriositi e ammirati, ma capirono meglio e inorridirono.

Il caso volle che il loro olivo fosse l’ultimo ad essere colto, così ebbero il tempo di sentire crescere l’angoscia e di scambiarsi gli ultimi baci. Che a strapparli dal loro ramo fossero le dita, forti e bitorzolute dell’uomo o quelle delicate della donna, nulla cambiava. Aspettarono che si compisse il fatto, piangendo sommessamente.

- Addio Margherita, amore mio.

- Addio Sirio, amore mio.

Si ritrovarono dentro la balla ancora mano nella mano e si misero a ridere dalla gioia. Non erano morti, come avevano pensato. C’era ancora speranza e potevano continuare ad amarsi, seppure nella balla soffocassero dal caldo. Quando rividero la luce non era più quella del sole, ma gli cadeva addosso da una fila di lampade, bianche come palle di neve. Il rumore era assordante e due grandi macine schiacciavano le olive riducendole ad un pasta grigia che puzzava del loro sangue, della carne, maciullata, dei loro corpi. Era giunta la fine!

- Addio Margherita, ti amo.

- Addio Sirio,ti amo.

- Vogliamo pregare… - bisbigliòimprovvisamente Sirio.

Non fece in tempo ad aggiungere altro, le macine arrivarono imponenti come due enormi montagne. Abbracciati com’erano, sentirono le proprie ossa scricchiolare, la loro carne farsi poltiglia. Subito dopo entrarono nel buio, fitto e freddo, e credettero che quello fosse la morte.

La sera stessa, Margherita e Sirio si svegliarono dentro un’ampolla di vetro, sul tavolo di una bella cucina, pulita e ordinata. C’era una luce colorata, appesa al soffitto, dei mobili di legno, e una scatola dentro alla quale si rincorrevano le immagini. Si toccarono con le mani per capacitarsi del loro corpo che non era più quello di prima. Però si vedevano e si potevano parlare. Si ricoprirono di baci e di mille carezze tenere.

- Abbiamo cambiato di aspetto - cercò di scherzare Sirio.

- Ma io ti vedo, e ti sento - ammise incredula Margherita -. Etu sei il mio amore, più bello che mai.

- Dio mio - scappò detto a Sirio -, ma allora la vita non ha mai fine!

Così sembrava che fosse, ma non c’era da stare sereni. Al tavolo sedettero il contadino, con le mani bitorzolute, e la sua compagna, con le dita bianche e affusolate. Adagiarono sui piatti due fette di pane abbrustolito e ci strofinarono sopra mezzo spicchio d’aglio. La donna prese l’ampolla e versò sopra al pane un filo d’olio, dai riflessi verdi e dorati. Margherita e Sirio caddero sulla fetta, nel piatto della donna, e furono storditi dall’odore piccante dell’aglio. Si guardarono, intensamente, negli occhi. Dovevano piangere? Dovevano sorridere? Dovevano, ancora una volta, dirsi addio?

Si ricordarono per un momento dell’olivo sopra la collina. Per loro, apparentemente, tutto era partito da lì. Chissà se il grande l’albero si ricordava ancora delle loro chiacchiere, dei loro sogni.. Da quando s’erano visti l’ultima volta, non erano trascorsi che pochi giorni. Era l’olivo il loro padre e quella collina la loro madre? Quante domande ancora adesso, un attimo prima di imboccare la strada di un nuovo cammino.

- Ricordi il vento? - chiese Sirio. E gli uccelli che venivano a portarci le notizie?

Margherita non rispose. Aveva gli occhi chiusi e un groppo alla gola, ma sembrava che si ricordasse di tutto. Sirio le dette un bacio sulla fronte e lei trovò la forza per un sorriso, ampio e caldo, come un raggio di sole.

- Ti amo, Sirio, forse adesso voleremo in cielo.

La fetta del pane ebbe un sussulto e sembrò lievitare in alto. Margherita e Sirio videro che la donna

stava, lentamente, aprendo la bocca. Fecero in tempo a scorgere le sue labbra colorate, i suoi denti, sporchi di fumo, e la lingua, rossa come il fuoco..

La bruschetta scricchiolò più volte, poi si ruppe in tanti pezzi e Margherita e Sirio furono di nuovo avvolti dal buio e dal freddo.

 

 

1.a Segnalazione di Merito

Stefano Colnaghi di Fara Gedda d’Adda (BG)

 

ERNESTO E’ MORTO VESTITO

 

Una doccia tiepida gli servì per togliersi la sensazione di umidità pastosa che aveva su tutta la pelle. Si esibì anche in una serie di gargarismi esageratamente rumorosi con i fili di acqua spruzzati dal doccino. Orinò mentre gorgheggiava, gustando il piacere di sentire la vescica che si liberava dagli eccessi della sera precedente.

Si stava già asciugando i pochi capelli rimasti, quando ringhiò la sveglia. Si aggiustò in qualche modo attorno alla vita la salvietta che aveva fra le mani, per coprire alla meglio le vergogne e corse in camera a spegnere il lamento straziante della sveglia. I vicini si erano già lamentati più di una volta per l’insolenza di un risveglio differente da quello del gallo. Ma, dato che era l’arciprete del paese da oltre trentacinque anni, ottenne di potersi comunque svegliare con le urla della sua sveglia, a patto che la spegnesse subito dopo il primo squillo.

Tornando verso il bagno per terminare di asciugarsi, con i piedi bagnati che lasciavano le enormi impronte sul pavimento, si trovò di fronte Edda, la perpetua, in tutta la sua bruttezza di zitella anziana, sommata a quella fisiologica del risveglio.

“Giù c’è il dottor Urbani che l’aspetta. Dice che è urgente.”

Faticò ad intendere le parole che la perpetua gli sibilò addosso, in camicia da notte, con una ridicola rete sulla testa per tenere in ordine un’ingenerosa capigliatura, perché non aveva ancora avuto il tempo di mettersi in bocca la dentiera.

Si vestì con la tonaca che aveva lasciato sulla sedia della camera la sera prima e scese al piano terra. Il dottor Urbani era intento a guardare gli orrendi ritratti di vescovi appesi nell’atrio, che aveva già visto migliaia di volte. Dalla maniera nervosa con cui ticchettava con la punta del piede s’intuiva che era impaziente.

“Ernesto è morto! L’hanno trovato dieci minuti fa.”

L’arciprete ebbe un attimo di stupore, durante il quale verificò con urgenza di non essere ancora a letto addormentato e di aver ben compreso le parole acute che gli aveva sbattuto in faccia l’amico dottore. Poi adon Luigi scappò un’imprecazione sconveniente per un sacerdote. Ma il dottore non si impressionò. Lo conosceva almeno da trentacinque anni e gli era già capitato di vederlo mordersi la lingua per trattenere una parola della quale si era già pentito di averla pensata.

Edda invece origliava da sopra le scale e si fece un fulmineo segno della croce, accompagnato da una mostruosa genuflessione. Non seppe nemmeno lei se fosse per raccomandare l’anima del defunto o per esorcizzare, com’era solita fare al posto suo, l’imprecazione colorita del sacerdote.

Don Luigi aveva accettato di farsi accompagnare fino alla casa del morto con l’auto del dottore, che era un pessimo guidatore, a patto che lo riportasse indietro entro venti minuti, cioè in tempo per la messa delle sei. Prese l’ombrello, perché era certo che fuori stesse piovendo. Quando uscì, con una faccia dubbiosa, si rese conto che invece non pioveva. Guardò in cielo, perché non ne era convinto, ma era ancora buio. Tenne l’ombrello con sé, perché comunque per quel giorno avevano previsto pioggia.

“Sarà stata la polenta e coniglio di ieri sera. Ha mangiato come un animale, e il barbera. Sicuramente una congestione. O un infarto, comunque causato da quanto ha mangiato e bevuto.”

Disse il dottor Urbani, cercando di rimanere aggrappato al volante e disperatamente di governare la piccola utilitaria, che ululava come un animale ferito ad ogni cambio di marcia.

“O semplicemente era giunto il suo momento.”

Replicò senza troppa convinzione il sacerdote, che si teneva stretto alla maniglia della portiera e pregava il Santissimo di concedergli la grazia di superare indenne le poche centinaia di metri che mancavano per raggiungere la casa del defunto.

Ernesto era un uomo alto più del normale e robusto. Aveva il torace da bue e la pancia da buongustaio, ma le gambe erano esili e pareva faticassero a sostenere l’armatura possente del suo corpo. Aveva la faccia scolpita e la fronte intelligente. Portava un paio di occhiali fuori moda, con le lenti un poco affumicate, a nascondere la timidezza di un occhio selvatico.

Da giovane era stato vittima di unassurdo incidente di lavoro e da quel momento l’occhio sinistro aveva deciso di affrancarsi dal resto del corpo, e di non rispettare alcuna regola. Si muoveva a sua discrezione, come quello di un camaleonte bizzarro. A volte si apriva di scatto, mentre Ernesto dormiva. Ma lui ci conviveva bene. Aveva preso atto che quella parte anarchica del suo corpo avesse deciso di comportarsi come gli andava. Spesso divertiva i bambini, che gli si avvicinavano incuriositi, con le esibizioni dell’occhio selvatico.

Era arrivato in paese un inverno ventoso di ventidue anni prima, avvolto da un velo oscuro di mistero, perché nessuno seppe mai esattamente da dove venisse e dove fosse diretto. Fatto sta che da quel giorno di nebbia, al contrario di quanto tutti pensavano, e forse anche lui, rimase lì fino al lunedì che lo trovarono steso sul letto. Vestito e freddo.

Arrivarono nel cortile della cascina dove Ernesto viveva, in un piccolo appartamento al piano terra. La macchina del dottor urbani emise due ruggiti tristi prima di arrestarsi contro la rete di recinzione e spegnersi.

La luce dell’appartamento, nell’angolo sinistro della cascina, era accesa. Sulla porta c’era il vicino di casa ad attenderli. Era lui che aveva trovato il corpo freddo di Ernesto, una mezz’ora prima. Era sceso in cortile per andare alla latrina ed era rimasto incuriosito dalla porta socchiusa e dalla luce accesa del suo appartamento. Così com’era, in mutandoni e cuffia da notte, era andato di corsa in bicicletta a chiamare il dottor Urbani.

“Dottore, Ernesto è morto vestito!”

Gli urlò al buio sotto la finestra. Per poi tornare alla cascina ad espletare l’urgenza che gli premeva dentro la pancia, e che aveva lasciato in sospeso.

Il dottor Urbani, don Luigi ed Ernesto formavano un gruppo di accaniti giocatori di carte. Il quarto era il sindaco. In realtà era stato il primo sindaco del dopoguerra, e aveva esercitato con incredibile rigore e saggezza, che gli rimase per sempre appiccicato addosso l’appellativo di sindaco. Infatti, tutti quelli che gli succedettero nella carica, erano chiamati “quello che ha preso il posto del sindaco”.

Don Luigi e il dottor Urbani entrarono nell’appartamento di Ernesto, preceduti dal vicino, che li aveva attesi dopo essersi liberato dagli impegni personali, ma sempre in mutande e cuffia da notte. C’era profumo d’incenso e di candele accese. Era tutto ben sistemato, anche se la moglie era partita una settimana prima per andare dal fratello al sud. Lui li avrebbe raggiunti con il treno di mercoledì.

Si era sposato con Assunta appena due anni prima, quando lui aveva ormai sessantuno anni e lei cinquantatre. Aveva trascorso una vita da scapolo, ma non si era mai fatto mancare la piacevole compagnia delle donne. Nubili o sposate che fossero.

La camera da letto era illuminata dalla luce fioca del lampadario, resa volutamente debole da un telo scuro avvolto intorno come alla gabbia di canarino la sera, e da due candele sistemate sui comodini. Il dottor Urbani e don Luigi notarono il sorriso scaltro sul volto di Ernesto, e notarono anche il rigagnolo bianco che gli usciva dall’angolo della bocca. Con uno sguardo s’intesero subito che non si trattava di indigestione, né di infarto.

Soli dentro la camera, con il cadavere dell’amico, il dottor Urbani non trovò un motivo per tenersi dentro ancora il segreto bollente che da due mesi gli rodeva le budella. Allora confidò a don Luigi che Ernesto era stato aggredito irrimediabilmente da un tumore. L’aveva scoperto per caso, ed era riuscito a nasconderlo a tutti, tranne che al suo medico e amico. E il dottor Urbani non ebbe mai, in una vita intera da medico, così difficoltà a tenersi dentro il segreto professionale.

Per la seconda volta in quella mattina infausta di un giorno disgraziato, don Luigi si lasciò scappare una bestemmia. In verità non gli scappò, ma la pronunciò scandita e sillabata, e non si morse la lingua per trattenerla. Rimbombò talmente forte, che fu certo che l’avesse sentita anche Edda, nella canonica.

“E adesso inginocchiati e fatti il segno della croce per me!”

Don Luigi aprì il cassetto. Dentro c’erano delle buste intestate, un quaderno messo a dura prova dagli anni e una scatola vuota di potenti barbiturici, in modo che non ci fossero dubbi su quanto fosse successo quella notte.

Il quaderno era quello sul quale i quattro amici annotavano i punteggi delle loro partite a carte, come fosse una lunga partita unica che durava da vent’anni. Avevano deciso che fosse Ernesto a tenerlo e ad aggiornarlo. E lui lo rese loro con le somme dei totali già calcolati, che davano l’incredibile risultato di perfetta parità. Come se quella partita lunga due decenni non fosse mai cominciata.

Prima di sdraiarsi sul letto per l’ultima volta, si vestì con la muta da sposo. Un evidente gessato scuro, con la camicia celeste e la cravatta carta da zucchero. Le scarpe laccate nere e un fiore fresco all’occhiello. Si era anche sistemato un rotolo di spago sotto il mento, per evitare il rischio di farsi trovare con la bocca aperta e magari la lingua fuori. Ma l’occhio sinistro si era riaperto, a dimostrare che si era ribellato anche al rigore della morte, e dava al sorriso del volto una leggera sfumatura di presa per il culo.

Le buste custodite nel cassetto erano cinque. Una era per il dottor Urbani e una per il sindaco. Una per il gestore delle pompe funebri, con i soldi per il funerale e le istruzioni per spedire la bara in irpinia. Una era per don Luigi. E una era per Assunta, ed era già affrancata con il francobollo, come a dire “speditemela voi, per favore.”

Il prete guardò l’orologio a cipolla che teneva nella tasca della tonaca. Mancavano otto minuti alle sei. A passo spedito sarebbe riuscito ad arrivare in chiesa, senza doversi sottoporre al dramma della guida incapace del dottor Urbani.

Uscì dalla casa del morto e aprì l’ombrello, perché, ne era certo, avevano previsto pioggia per quel lunedì. Ma nonostante tutto non pioveva. Era ancora buio e il sacrestano stava già suonando le campane.

Ora don Luigi era completamente solo. Iniziò a rendersi conto che non stava sognando, che quella giornata disgraziata era già cominciata e non prometteva affatto bene, anche se non stava piovendo.

Era solo mentre procedeva con il vecchio cuore in affanno verso la chiesa. Sentiva come martellate sorde i suoi passi sul selciato, e faticava ad espellere con rutti troppo giovani le acidità degli eccessi della polenta e del barbera. Comprese che gli anni cominciavano ad essere troppo tanti anche per lui. Per la prima volta avvertì che faticava a sopportare il peso delle eterne borse che aveva sotto gli occhi. Si sentiva troppo grasso e troppo vecchio, e troppo incazzato per la morte di Ernesto. Allora estrasse dalla tasca la lettera destinata a lui. Era ancora troppo buio. Si fermò sotto un lampione per leggere l’ultimo saluto che gli aveva dedicato l’amico.

Si trattava di una manciata di righe essenziali, così come Ernesto lo era stato per una vita intera e terminava dicendo:

“Dì al tuo Signore che ho scelto io quando morire, così mi sono potuto vestire. Avessi lasciato fare a lui, magari mi avrebbe fatto morire in pigiama.”

I rintocchi delle campane gli ricordarono che erano le sei. Prima di entrare nella sacrestia riuscì a fare un rutto serio, che lo liberò in parte dei draghi che gli nuotavano nello stomaco.

Si preparò e salì sull’altare per celebrare con la solita monotonia feriale la messa delle sei. La chiesa era fredda., una patina di umidità avvolgeva la penombra. Dentro c’era solo la mezza dozzina di vecchie, che non potevano fare a meno di quella funzione a cielo ancora buio, così come non potevano fare a meno di presenziare gementi e piangenti ad ogni funerale del paese. Chiunque fosse la sfortunata o lo sfortunato nella bara.

Officiò come se la chiesa fosse completamente vuota, o completamente piena, poiché si scoprì in una dimensione strana. Quando arrivò il momento dell’omelia, a don Luigi non venne in mente niente.

Allora disse:

“Ernesto è morto vestito.”

 

2.a Segnalazione di Merito

Antonio Sartor di Conegliano (TV)

 

IO.LA NOTIZIA

 

Lettori carissimi,

questa volta a scrivervi sono proprio io, la Notizia. Nessun disguido quindi o errore da parte mia, semmai una furtiva intrusione nella vostra privacy. Io, Notizia, sono la Fonte, sono l’inesauribile Miniera da cui fluiscono o si estraggono da filoni diversi tutti gli argomenti di cui si intende parlare, leggere, vedere, sentire, ecc. Vorrei approfittare della generosità dell’Autore per parlare di me. E’ un monologo, il mio, che mi esce dal cuore e che spero mi dia la possibilità di togliermi pure qualche sassolino dalla scarpa.

E’ dallo stato di fatto, è dal concreto, è dall’ oggettività di cui io sono parte basilare che attraverso i canali di informazione –tutti quelli che voi conoscete o preferite- mi trasformo in notizia. Ho detto <mi trasformo>, ma non è così, scusatemi. Nell’impazienza di dire tutto subito, parto già col piede sbagliato. Ho usato il <mi> riflessivo che indica un’azione su me stessa, una mia volontà, mentre in realtà non possiedo alcuna autonomia divulgativa. Io subisco e come un minerale vengo trasformata, alterata, menomata, ecc, ecc.: verbi tutti passivi. E’ come dire che sono sempre in mano d’altri. Ed è in questo stato di cose, ve lo giuro Lettori carissimi, che per la mia incolumità ne farei volentieri a meno. Divento così, l’alimento per eccellenza, la materia prima, sia degli organi d’informazione, che delle ciarle popolane. Quali che siano i miei manipolatori-divulgatori, mi si prende sempre e comunque alla maniera di un contenitore, dal quale ciascuno estrae, allo stesso modo di un illusionista, ciò che più gli è congeniale, che più possa fare al caso in questione. Già, estrae o introduce? Mah!? Dilemma. E’ come dire Essere o non Essere; valutate voi.

Così facendo, il passaggio dalla realtà alla fantasia diventa automatico: si può dire anche spontaneo. Si va dall’insulso pettegolezzo salottiero del passaparola e di gradino in gradino si sale fino a raggiungere i centri del potere. In un caso e nell’altro stravolgendomi, fino a far perdere di me tutti gli originali connotati. Infatti, durante il percorso succede di tutto. Nomi comuni, come annuncio, comunicato, informazione, conoscenza, fatto, novità, nuova, articolo, trafiletto, pezzo, dispaccio, episodio, evento, vicenda, impresa, avvenimento, faccenda, accaduto, circostanza, ecc. ecc., diventano i più frequenti sostantivi usati nella manipolazione dei vari filoni di contenuto. Essi sono una litania di nomi che in fondo non cambiano la sostanza. Succede come per la somma: modificando l’ordine degli addendi il totale non cambia.

Ogni diverso termine scelto da chi si occupa di me trova nella mia ampia varietà di argomenti il suo fattore stimolante. L’associazione è indubbiamente soggettiva -e, passatemi il termine, suggestiva- in linea con quanto si vuol far apparire, senza minimamente preoccuparsi non solo della giustezza, ma nemmeno della verosimiglianza. E’ il momento dello stravolgimento, della manipolazione, della distorsione. Spesso senza neanche sapere di cosa si stia parlando.

Fortunatamente larga parte di voi Lettori che mi state leggendo è immune da contaminazioni. Attraverso l’arma della cultura, siete in grado di autodifendervi, di tutelarvi da falsificazioni, da distorsioni, da alterazioni. La mia totale comprensione è indirizzata piuttosto verso quegli inermi utenti che non possiedono validi elementi culturali di protezione, diventando così inconsapevoli spugne delle quotidiane manipolazioni di cui io, Notizia, sono oggetto. Per loro ogni sorta di spazzatura, di schifezza, rischia di essere percepita come oro colato, come verità rivelata, il vero per vero che vero non è.

Il tutto, naturalmente, a mio carico, approfittando del fatto che per mia natura non ho né mezzi né strumenti per difendermi. Se li avessi, sai calci che farei volare dove dico io.

Alla base dell’informazione c’è sempre la Verità. Insisto sulla Verità. C’è o ci dovrebbe essere? Mah!? Se, come dice l’Anonimo, -La verità è più incredibile dell’invenzione- va da sé che per raggiungere la veridicità dei contenuti, intesi come traguardo, i miei divulgatori devono raggiungere e superare l’incredibile al quale lo stesso Anonimo fa riferimento. Tutto ciò avviene facendo leva sulla spettacolarità, sull’eccezionalità, sull’esclusività, talvolta anche sulla riservatezza (finta) delle fonti. Il tutto in faticosa salita fino a raggiungere l’empireo degli iper… E superarlo, per farli vagare nell’incerto spazio dell’incredibile.

Quante volte un acquazzone diventa un alluvione? Un assassinio una strage? I più sono adusi trattarmi gettandovi dentro sterco a piene mani e più ne hanno da riversare e più sembrano trovarsi a loro agio. E non basta: oltre al nome, mi si appiccicano, spesso a sproposito, una miriade di aggettivi, di “esaltatori di sapidità” -per dirla con chi esercita l’arte della cucina- affinché la libidine che scaturisce dalla gola -sempre restando nell’ambito gastronomico- raggiunga fra i commensali il massimo risultato. Mai altri come me possono vantare una cosi vasta gamma di qualità, mai ad altri se ne attribuiscono tante.

Talvolta non esisto neppure o mi trovo in uno stato di quasi-esistenza, nel limbo dei <si dice>. E’ in quell’occasione che l’insieme delle illazioni supera ogni limite. A tutti i costi si vuole che io, Notizia, comunque fatta diventare qualcos’altro nel frattempo, risulti convincente, tanto da catturare la buona fede dell’utente finale. Ed ecco che in questo modo finisco per apparire quella che non sono e mai sono stata. Quando poi i miei contenuti sono poco chiari o incompleti, mi si dà consistenza esprimendo al condizionale la parte dubbia. Avete fatto caso a come viene espresso il condizionale? Con l’enfasi di un condizionale-imperativo, tale da essere percepito come reale.

E come per una miniera esausta, non potendo più estrarre, è la volta in cui si introduce, trasformandomi in discarica. Siamo nel pieno del momento “creativo”, durante il quale mi si costruisce o ri-costruisce a seconda delle necessità,facendo di me ciò che non ero, non sono, non sarò mai. Avete capito bene: posso sussistere anche senza essere, senza esistere: magia della creatività. Essere falsa! Essere una balla. La fantasia umana non ha confini in materia di divulgazione. Mi conoscono tutti e tutti mi usano. Comunque lo facciano, tutti cercano dentro di me la parte peggiore e quando il peggio non lo trovano, perché non c’è, lo inventano.

Di sovente accade che mi si ripeschi a distanza di tempo. Succede come in talune cucine quando si è costretti a riciclare cibi non proprio di giornata. Anziché buttarli nei rifiuti, gli avanzi si correggono senza grossi interventi. Spesso è sufficiente la sola aggiunta di spezie, droghe, aromi; a volte un solo ulteriore pizzico di sale. Morale della favola: si fa leva sul sapore per impreziosire la sostanza affinché possa essere riciclata con successo.

Più gravi di altri sono i molti casi di persone che per avventura sono diventate un tutt’uno con me. Sono i portatori unici a pieno titolo, nel senso che loro ed io siamo inestricabili e, aggiungerei, biunivoci. In queste situazioni, il culmine della trasgressione, della prevaricazione nei miei confronti da parte degli organi di informazione si raggiunge dovunque si tratti di fatti delinquenziali, di cronaca nera. Succede quando fior di criminali, anziché essere in galera, in barba ai magistrati essi vengono assurti all’onore della cronaca da protagonisti, da eroi, pagati e riveriti come persone perbene. Esaurite le sceneggiate e tornati al serio, di volta in volta mi domando cosa rimarrà al magistrato da valutare in tribunale nel momento in cui si troverà davanti alla persona portatrice di reato, già svuotata dei propri misfatti attraverso il protagonismo di cui è stata parte attiva di massimo rilievo durante l’alternarsi di discutibili, riprovevoli, esibizioni.

Quando sono trash -perché, abbiate pazienza Lettori carissimi, non sempre sono illibata- le mie quotazioni aumentano. Concedetemi un paragone. Pensate ai benefattori di qualche istituzione. Più spesso che mai essi sono relegati in una lapide che nessuno nota -e lì si esaurisce il ricordo- mentre di malfattori e criminali ne è piena la Storia ufficiale.

Sempre restando nel trash, la stessa professione più vecchia del mondo è per chi si serve di me anche la più succulenta, oltre che remunerativa. Altro che luminari della scienza. A me, Notizia, dai centri del sapere non ho mai ottenuto grandi risalti. Quando sono scienza, come materiale informativo interesso un numero limitato di lettori, mentre il marciapiede e tutte le sue connessioni rendono a chi mi maneggia molto, molto di più. Chi in questo caso più mi fa valere, mi dà risalto, è la persona che più di altre sa giocare col guano, o con le varietà diguani, usati allo stesso modo delle spezie e degli aromi in cucina.

L’arte della manipolazione non ha confini: pensiamo a quel mosaico dinamico che è una sequenza composta di uno o più fatti realmente accaduti. Ebbene, più spesso che mai, col pretesto di approfondirmi, mi si frantuma come un minerale, si riduce il mio mosaico a tessere, a fotogrammi, a polvere. Siamo in presenza di una gestazione alla rovescia, ad un’operazione invasiva che non consente più di risalire all’immagine di partenza. A seconda delle opportunità, di me si fa e rifà quello che in termini cinematografici si chiama montaggio: si scompongono e si rimontano i fotogrammi, per ricavare una sequenza in linea con quanto si vuol dimostrare, non sempre, anzi mai, uguale al vero, ad una sostanza pura. Si lavora sul mio DNA allo stesso modo dei genetisti con le cellule. Se i loro risultati sono i tanto deprecati OGM -organismi geneticamente modificati- allo stesso modo la mia sigla dopo il lavoro degli “esperti” potrebbe diventare NGM, cioè notizie geneticamente modificate; se non NGS, notizie geneticamente stravolte.

Quello che in medicina è accanimento terapeutico, per me è accanimento mediatico. Di me si parla, si legge, si vede, si sente. Ogni umano organo sensorio è messo a dura prova e per ciascuno c’è il tranello specifico studiato e sparato ad hoc, affinché io, Notizia, lo debba centrare e colpire.

Lo fanno, scusate se sono costretta a ripetermi, con la più naturale disinvoltura fior-fior di professionisti per rendermi credibile, attraverso la creazione dell’incredibile. Non diversamente succede quando galleggio sul passaparola della piazza (e perché non dei salotti?), dove ogni lingua (perché non linguaccia?) taglia e cuce alle mie spalle personalizzando, più o meno cercando, quanto inconsapevolmente non si sa, di ricavarne un utile, anche per il solo becero chiacchierare.

Nell’economia generale muovo ingenti capitali attraverso sofisticatissime tecnologie. Stando così le cose, io dovrei provare per me stessa un forte senso d’orgoglio e invece la mia è essenzialmente umiliazione, mortificazione, appiattimento.

Lettori carissimi, scusate se ho abusato della Vostra pazienza per dirvi cose che, in fondo, conoscete già alla perfezione. Ho parlato di me in prima persona e l’ho fatto per mettervi in guardia, affinché possiate usare meglio tutta la vostra intelligenza per distinguere il principio attivo, la Verità, dai falsi eccipienti: quelle sostanze che anziché essere inerti come si intendono in farmacia, diventano -perché sono fatte diventare- più attive di altre. Sono, quelle, le armi subdole, il ti vedo e non ti vedo di cui si servono i miei manipolatori per prendersi gioco di voi, per farvi entrare nel loro mondo vuoto, artificioso, ingannevole, fasullo.

Perciò, Lettori carissimi, state in guardia, sappiate difendervi dai falsi profeti!

Grazie dell’attenzione.

 

3.a Segnalazione di Merito

1° Premio Speciale LAV – Lega Antivivisezione

Renato Pisani di Roccatederighi (GR)

 

 

Cara Marianna,

quello che mi succede ora che so’ morto non l’avrei mai creduto da vivo e nemmeno tu. Quanti giorni sono passati che m’avete fatto il funerale?

Uno, due, quattro, una settimana? Io non me lo ricordo più, ma, in ogni modo, non è importante perché quello che ho da dirti ha dell’incredibile.

Ti ricordi, spero, che con Dio non ho mai avuto tanta confidenza e figuriamoci col prete e con la chiesa. Non era per cattiveria, perché il prete la casa nostra l’ha benedetta tutti gli anni e sul tavolino ci trovava le uova, ma, soprattutto, alcuni biglietti da diecimila. Con te non ce n’è mai stato bisogno, ma non avrei mai potuto dirti di non andare in chiesa. Così è stato coi nostri figlioli che sono stati liberi di fare quello che volevano. Quel che è vero è vero!

Il fatto è che il mio nonno era anarchico e il mio babbo comunista. In casa si parlava di tutto, ma di andare a messa non frullava per la testa a nessuno; e nemmeno c’era il tempo perché la domenica mattina si lavorava e quando si faceva festa, nonno leggeva, babbo andava a caccia e io non vedevo l’ora di corrergli dietro.

Così, a differenza di nonno, io ho letto poco, ma la soddisfazione di vedere il cane che puntava un animale quella me la so cavata. E poi quante fucilate! Con questo non voglio dire che non potevo fare di meglio, ma, a Dio, insomma, non ho avuto il tempo di pensarci e, comunque, per dire, fino in fondo, le cose come stanno, al Padreterno non ho mai creduto. Un pochino la pensavo come nonno. Lui diceva che quella di Dio è una novella inventata dai preti e, se la guardi da vicino, non si regge in piedi da nessuna parte. Poi aggiungeva che se un creatore esiste, nessuno, ma proprio nessuno, può dire com’è fatto e perché ci ha fatti. Che ognuno, poi, la pensasse a modo suo e facesse il suo comodo, ma sul fatto che andare in chiesa fosse tempo perso lui non aveva dubbi.

Del male, comunque, non l’ho mai fatto a nessuno e quando ho potuto una mano l’ho data a tutti, più di quanto gli altri l’abbiano data a me. Questo è certo. Poi, fino a quando sei giovane, badi solo a stare bene e a Dio ci pensi il meno possibile, ma, quando cominci a farti anziano, la domanda se il paradiso ci sia davvero qualche volta la rimugini e, fra l’idea che ci sia e quella che non ci sia, ti fa più piacere pensare che, forse, c’è. Ora sono morto abbastanza giovane, ma qualche dubbio per la testa m’era passato, però non sono mai andato più in là della solita considerazione: “ Ma si starà a vede’! Se c’è, c’è! Se un c’è pazienza!”

Il fatto è che c’è davvero! Ora questo lo posso dire con certezza, perché dopo morto mi sono ritrovato quassù ( a dire il vero non so bene se sono quassù o se invece sono finito laggiù ); dico quassù perché qui tutto è bello; non fa caldo e l’aria che si respira sembra pura, il cielo è celeste, il sole non si vede, ma si sente che c’è. C’è anche una grande organizzazione e ti senti a tuo agio. Appena arrivato ho saputo subito che Dio non m’avrebbe ricevuto. Nessuno me l’ha detto, ma ho capito che m’aspettava per il giorno dopo. Mi sono guardato attorno e m’è sembrato d’essere a casa. La cosa più bella è stata che, dovunque mi girassi, non vedevo anima viva, ma soltanto animali che pascolavano tranquilli, che correvano sull’erba, che volavano in alto, che sguazzavano nell’acqua.

“Vuoi vede’ - mi sono detto, fra me e me -, che ho sbagliato posto e sono venuto nel paradiso degli animali?”. Io però non ho fatto nulla per arrivare qui. Non è che, strada facendo, ho incontrato un bivio né visto qualche cartello che indicasse a destra invece che a sinistra; mi sono sentito trasportare e ho chiuso gli occhi.

Dovendo aspettare che mi si ricevesse, ho fatto due passi e, così, strada facendo, s’è maturata in me l’idea che alCreatore fosse inutile dire bugie, annacquarglila verità. Lui tanto sa tutto e non dirgli le cose come stanno si può soltanto peggiorare la situazione. Allora mi sono seduto sopra un sasso e ho cercato di pensare a tutto quello che di buono avevo fatto in vita e a quel pochino di male che m’era scappato, di tanto in tanto.

Non è stato facile concentrarmi perché davanti a me passavano, di continuo, gli animali e a momenti mi sono spaventato perché ho visto arrivare una coppia di leoni, una tigre solitaria, sei o sette cobra, una fila di coccodrilli. Ma quando m’è venuto incontro un branco di lepri, una centinaio di fagiani, una ventina di allodole, allora ho pensato al mio fucile e ho fatto la vista di puntarlo e di sparare d’imbracciata una coppiola.

E’ stato in quel momento che, lasciando ricadere in avanti le braccia un po’ stanche, m’è venuto alla mente quel poco di male che ho fatto in vita. Inutile che adesso ti rifaccia tutto l’elenco. Ti dico soltanto di tre episodi, in fin dei conti quelli più brutti, che se non l’avevo fatti era meglio.

La prima marachella, se così si può chiamare, la commisi quando avevo nove anni. A scuola, al maestro non stavo simpatico, maneanche lui a me. Se c’era uno che doveva accendere la stufa e accudirla perché non si spengesse, quello ero io. Poi quando pioveva mi mandava per il paese a comprargli il giornale, le sigarette e il pane. E lo sapeva che non avevo l’ombrello, così, quando tornavo, mi sgridava, davanti a tutti: “.. solo un fesso che si ferma a chiacchiera si bagna in questo modo!”.Peggio di sempre si comportò quando inciampai nelle scale e gli ruppi la bottiglia del latte. Mi feci un taglio in un ginocchio e strappai i pantaloni nuovi che erano di velluto. Nel trambusto finse di preoccuparsi, ma poi mi mise dietro la lavagna, perché, disse, che avevo sempre il capo fra le nuvole. Fu così che meditai la vendetta e il giorno dopo gli bruciai il castro. A dire il vero quando vidi il fuoco ceraci di spengerlo, ma ebbi paura e scappai. Il maiale, poveraccio, morì arrostito. Nessuno pensò a me e tutti dettero la colpa al vicino. Solo il nonno mi chiamò in disparte e mi disse serio: “ Mica sarai stato tu a fare quel malestro al maestro?!” “ Ma, nonno, - gli risposi offeso - pensi davvero che sia scemo?!”

Tu sai bene, Marianna, che, da quando ci conosciamo, mai una volta ho rubato uno spillo che è uno spillo. Eppure, a vent’anni, una volta c’era stata. Il fatto era che, ogni tanto, qualcuno veniva a scassarci la casetta. Quando il grano, quando i prosciutti o le galline. Un anno ci portarono via due ziri d’olio e le tracce andavano sempre verso il campo del vicino. Avevi voglia a fargli la posta, lui era più furbo di noi e non c’era verso di beccarlo. L’anno dopo, giocai di anticipo e gli rubai tre quintali di olive. Per terra lasciai più tracce che potevo così che sapesse chi era stato. La mattina dopo, lui non disse né ohi né ahi, ma, da allora, non c’è mancato più niente e si poteva lasciare anche la porta aperta.

Ora, Marianna, quella che ti dico è la colpa più grave che ho commesso e, purtroppo, ti riguarda da vicino. Forse nemmeno l’hai mai sospettato, ma per dieci anni t’ho messo le corna a réfe doppio. Cominciò tutto alla vigna, quando Giovanna venne a sentì se gli vendevo un pollo. Non era la prima volta, ma quel giorno cominciò strofinarsi e mi disse: “Oh Carlo, ho una voglia matta di fare l’amore con te”. “ Non fa’ la stupita, - le risposi - non ti rendi conto quanto è pericoloso?” E lei di rimando: “ Non hai voglia?” “Voglia, avrei voglia” - dissi io.

Ci mettemmo d’accordo che sarebbe stata la prima e l’ultima volta. Invece non andò così e la regola fu che lei venisse tutti i lunedì, una settimana sì e una no, ma poi finì che poteva venire quando voleva e spesso la chiamavo io quando avevo voglia di vederla. Fu un vero amore?

Ora non voglio scusarmi, tanto a questo punto sarà Dio a giudicarmi, ma devo dirti che Giovanna era una bella donna. Bella e brava. Sotto era perfino meglio che sopra. Aveva due gambe perfette, un petto delicato e faceva l’amore in maniera divina. Ecco, tu, Marianna, non sei mai stata capace di fare l’amore come lei. Quando lo facevi sembrava che fosse per abitudine, avevi sempre sonno e mai una volta hai usato un pizzico di fantasia, un briciolo di dolcezza. Fare l’amore è un’arte e Giovanna era un‘artista. Ecco, io ho finito per volerle bene!

Di tutto questo ho riflettuto sul sasso aspettando di andare al cospetto di Dio. La mattina seguente ero molto sereno. In paradiso sembra che l’ansia non esista, ma solo una consapevole serenità mista a gioia, quasi che uno abbia bevuto un bicchiere di troppo e sia un po’ sbronzo. Dio me lo immaginavo con la barba, alto, bello, con le braccia robuste, circondato da tanti angeli e con Gesù, come diceva il prete a scuola, seduto sulla destra.

Qui invece sta la sorpresa e il motivo per cui, appena ho potuto, sono corso a scriverti questa lettera. Sono rimasto di sasso, incapace, per qualche istante, di dire una sola parola. Sai chi, sopra una sedia, stava seduto in fondo alla stanza? Non so come dirtelo! Ma quello che ho visto era il nostro gatto! Nerone! L’ho riconosciuto subito e, appena ho potuto, l’ho detto:

- Nerone! Ma cosa ci fai qui?

Mi ha risposto con una voce profonda, calda e solenne.

- Questa è la mia casa. Il regno dei cieli.

- Su via, - gli ho risposto - non scherzare. Non è il momento di mettersi a giocare.

- Io non sto giocando. Sei tu che ancora non comprendi.

- Vuoi dirmi che tu sei Dio, il creatore del cielo e della terra?

- Io sono quel Dio - ha risposto solenne con una punta di vanità.

Capisci, Marianna, in quel momento mi è cascato il mondo addosso. In un attimo ho rivisto Nerone in casa nostra e ho pensato che a quel gatto non ho mai voluto bene. Lui, poverino, non perdeva mai l’occasione per strofinarsi alle gambe e quando poteva mi veniva in collo, ma io, per tutto il tempo che è campato, gli avrò fatto, fra il sì e il no, due o tre carezze, poi urli, scapaccioni e anche qualche calcio fatto bene.

Ho sempre avuto passione per cani che, quasi, quasi, sono stati importanti come i figlioli o forse più. Il cane è un animale intelligente che ti dà soddisfazione; lo vedi quando punta e ti riporta un fagiano senza fargli un graffio. I cani mi hanno fatto gioire e piangere. Sai quanto soldi mi sono costati per curarli e per aiutarli a non soffrire. Invece quelle poche volte che hai portato Nerone dal veterinario, ti giuro, avrei strozzato te e il gatto. I gatti non hanno bisogno del medico, loro si curano da soli e poi se un gatto muore non ha il valore di un cane.

Un giorno che mi lasciasti il pranzo sul tavolino, Nerone si mangiò tutta la carne, finì la pasta e sbocconcellò il formaggio. Quando vidi quello scempio mi venne la voglia d’impiccarlo e gli detti tante di quelle granatateche alla fine ero stanco. Per un mese non ebbe il coraggio di entrare in casa e tu dicevi:” Nerone è strano. Deve aver preso un colpo da una macchina”.

Preso da mille rimorsi, avrei voluto scusarmi. Dio mi guardava con uno sguardo penetrante che definirlo dolce è davvero poco. Non sono stato capace di abbassare la testa e sono andato lì, lì per piangere. Poi mi é scappato detto:

- Perdonami, non lo faccio più!

Si è messo a ridere divertito e quella risata mi ha fatto più male d’una fucilata. Lui ha compreso il mio stato d’animo e mi ha parlato come un padre infinitamente buono e comprensivo.

- Dammi la mano e vai in pace. Quello che è stato è stato.

I miei occhi si sono riempiti di lacrime, non succedeva, credo, da cinquant’anni. Gli ho stretto la zampa.

- Acqua passata? - ho chiesto.

Ha riso ancora divertito.

- Acqua passata! - ha risposto.

- E il giudizio?

- Quale giudizio?

- Quello universale?

Non l’avessi mai detto! S’è messo a ridere che gli brillavano gli occhi.

- Domani, domani… - ha ripetuto, mentre mi accompagnava alla porta.

Ora, cara Marianna, sono qui che aspetto e come vedi penso a te. Ma tu l’avresti mai detto che Dio è un gatto e per giunta il nostro gatto? Io ci sono rimasto male, ma così tanto che ancora non so capacitarmi se tutta questa storia è vera.

Comunque, ho deciso d’aspettare domani. Se, domani mattina, Dio mi chiama per dirmi quello che ha disposto, vado avanti sulla sua strada e se invece mi sveglio nel nostro letto e, come ogni giorno, sento che in cucina hai fatto il caffè, beh, allora di questa storia non ti dico nulla perché s’è trattato solo di un brutto sogno.

 

 

 

1.a Segnalazione

Linda Polzella di Cecina (LI)

 

EVA

La notte stava trascorrendo, lenta, le gocce scendevano nella flebo con la medesima cadenza, ormai da ore.

Eva, così l’avevo chiamata, dormiva in un sonno profondo.

Nonostante fosse giugno inoltrato avevo un freddo terribile, le notti a Lampedusa sono gelide, proprio come nel deserto. Un caldo eccessivamente arido durante il giorno, un’aria glaciale nelle tenebre.

I pensieri ricadevano inesorabilmente su quel pomeriggio.

Ancora oggi non so dire se prevaleva più l’indignazione, la rabbia o chissà quale altro terribile sentimento che nel vocabolario umano non ha ancora trovato un nome ed una definizione.

Avevo bisogno di piangere, forte, volevo urlare e magari tirare contro il muro tutti i graziosi souvenir a forma di tartaruga che intravedevo intorno a me, e che, illuminati dalle insegne esterne dei negozi assomigliavano a mostri indefiniti.

Non potevo mollare, non potevo disperarmi, avevo fatto tanto, lei era forte ed io dovevo fare altrettanto.

Nonostante dormisse in un sonno profondo, immobile, come svenuta, osservandola, in alternanza al suo battito eccessivamente sostenuto, udivo ancora le sua urla disperate che per ore avevano lacerato l’aria e si materializzavano nuovamente i movimenti scoordinati e frenetici che l’avevano accompagnata tra la vita e la morte.

A tratti chiudevo gli occhi, per disperdere anche solo per un attimo quelle immagini che mi stavano logorando da ore, e davanti a me comparivano uno ad uno i volti delle persone, indifferenti, a tratti schifate, ironizzanti della mia presenza accanto a lei agonizzante.

L’avevo trovata così, accasciata al suolo, che si dimenava disperatamente, gli occhi girati indietro, la bava alla bocca. Passeggiavo una domenica pomeriggio sul corso principale, via Roma, e lei stava lì, morente di fronte agli occhi noncuranti dei passanti.

Quella notte, nonostante la reiterazione continua delle immagini confermasse l’accaduto, mi sembrava tutto così irreale. Frequentemente mi capita di non riuscire a posizionare nella vita concreta gli avvenimenti che identifico come assurdi ed inspiegabili, e quello purtroppo lo era, non certo perché è così improbabile che un cane si avveleni…

Ancoraadesso se ci penso, sento una rabbia nascere dalle viscere che mista al mio sangue percorre ogni più piccolo capillare ed invade ogni parte di me.

Era la prima volta che mi trovavo davanti agli occhi una creatura in fin di vita.

Iniziai a tentare di fermare i passanti, quelli che non mi osservavano con aria di disgusto, c’era bisogno di un veterinario.

Nessuno mi considerava, ed i pochi che rispondevano sostenevano di non sapere niente.

La mia illusione di vederla sdraiata su un tavolo di metallo tra le braccia di un dolce signore dal camice bianco si stava sgretolando: a Lampedusa non esiste il veterinario.

Iniziai ad urlare, era impossibile!

Fu allora che alcuni ragazzini, in un dialetto che a stento riuscivo a comprendere, mi dissero che in una traversa a circa quattrocento metri c’era “una veterinaria che vendeva souvenir”.

La presi in braccio, nessuno, neanchetra i curiosi, voleva toccarla.

Era pesante, molto, avevo bava ovunque, si dimenava, mi urinò addosso.

Dopo seppi che giunsi al negozio della “veterinaria” con il corteo a seguito.

La “veterinaria”, Francesca, mi fece entrare nel retrobottega, mi disse di tenerla ferma, lei sarebbe andata in farmacia.

Mi resi conto dopo, quando giunse il momento di muovere le braccia, che in quella posizione ero rimasta per ore.

Quando finalmente si addormentò, ingenuamente, chiesi a Francesca dove avesse il suo ambulatorio e se non fosse stato più comodo trasportarla lì per farla riposare.

Sorrise, rispondendo con un’altra domanda: <chi ti ha detto che sono un veterinario?>

Le dissi dei ragazzini, quelli che mi avevano fatto la scorta sino al suo negozio, sorrise di nuovo: <a Lampedusa non esiste un veterinario stabile, saltuariamente ne viene uno dalla Sicilia. Io aiuto semplicemente gli animali, quelli dimenticati.>

In un posto così piccolo non ci volle molto a sapere chi fosse e da dove apparisse quella cucciolona: aveva tre mesi, e da circa uno si era unita ai “canuzzi” di Lampedusa, da quando qualcuno aveva deciso che non poteva più tenerla.

 

Sentii bussare alla porta, il negozio era chiuso da ore, certo non poteva essere un cliente.

Una ragazza dalla folta chioma riccia, un’amica di Francesca, pensai. Le dissi che era a casa, che in negozio c’ero soltanto io.

Mi disse di chiamarsi Giada. Era lei.

In certi momenti ogni uomo torna alla stregua dell’istinto che caratterizza ogni altro animale, dovetti trattenermi da non tirarle un ceffone.

La fissavo dritto in faccia.

<Mi chiedo come si può decidere di prendersi cura di un cane, ricevere tutto il suo amore, ed un giorno, solo perché non si è valutato ciò che comporta averlo accanto, dargli un calcio senza indugi, giustificando se stessi con la frase : non potevo più tenerla. La cosa grave che sta alla base di tutto è che non è obbligatorio prenderne uno. Forse in colpa non ti ci sei sentita fino ad adesso, ma forse è il caso che inizi a pensare: ciò che è successo è tutto merito tuo.>

Abbassò gli occhi, io le aprii la porta.

 

Giunsi al negozio correndo, era mattina tarda, Francesca mi aveva forzatamente mandata in albergo a fare una doccia.

La trovai sulla porta, e prima ancora che le parole riuscissero ad uscire, mi disse che si era svegliata. Aveva superato la notte, non era più in pericolo, era viva!

Sentì per un attimo le mie gambe cedere. Corsi da lei. Se ne stava seduta dietro la tenda di iuta che delimitava l’ingresso al magazzino, tentando di spiare dentro il negozio.

I nostri occhi si incontrarono per la prima volta.

Non riuscivo a parlare e neanche ad avvicinarmi, i suoi dolci occhi miele mi avevano pietrificato.

Fece lei il primo passo. Con un incredibile naturalezza, prima si girò su un fianco per capovolgersi subito dopo mostrandomi la parte più indifesa.

Mi aveva riconosciuta, probabilmente tramite l’unica cosa che le era stato concesso di percepire di me in quegli interminabili attimi, il mio odore.

Riuscii a muovere una mano e quando la mia pelle sfiorò il suo pelo piansi, disperata.

Adesso dovevo trovarle una casa, lontano da lì, dove sarebbe finita nuovamente in strada.

Non ci volle molto. Il destino prima le aveva fatto incontrare me e subito dopo seppi che una famiglia di Milano con tanto di bambini e casetta con giardino cercava una cagnolina.

Prenota l’aereo, cerca disperatamente una gabbietta…a Lampedusa è da depennare subito dopo il veterinario…Imbarcata, dopo una settimana dal nostro incontro.

Il mio saluto fu un bacio dopo averle annodato al collo un gigantesco fiocco arancione, era il suo colore, sul suo manto chocolate spiccava incredibilmente…assomigliava ad un peluche.

Di lei mi resta una foto, l’abbraccio mentre dorme sul mio asciugamano in spiaggia, abbiamo entrambe gli occhi chiusi e siamo completamente bagnate d’acqua di mare, ed un grande dono che racchiude in se tra le più belle sensazioni che la vita mi ha concesso di vivere.

 

 

2.a Segnalazione

8° Premio Circolo Culturale Luzi con tema “La Miniera”

Francesca Romana Manieri di Roma

 

 

LA PIETRA DI MINIERA

 

Incedendo lentamente per le vie della città, il vecchio con il copricapo di pelotirava con una mano la fune dello yak, mentre con l'altra controllava il contenuto della borsa di camoscio che urtava ritmicamente sulla coscia destra.

Le strade rilucevano sfavillanti di colori e gli ingressi delle case di fango dipinto, con i tetti a terrazza, riecheggiavano dei rumori e delle voci di un grande mercato all'aperto. Ovunque era un via vai di persone che venivano da ogni angolo della terra e parlavano una moltitudine di lingue diverse.

Quella sorta di Babele era il crocevia di carovane che da ovest dirigevano ad est, e dal lontano Oriente ritornavano cariche di spezie, di seta, di tessere di mosaico d'oro, di piccole sculture eburnee legate in argento. Qui era possibile vedere ogni sorta di animali: leopardi condotti al guinzaglio come fossero innocui micioni, tapiri, serpenti a sonagli dentro ceste con il coperchio e scimmie ammaestrate con uno strano ciuffo di peli azzurri sulla testa.

Dalla Serenissima giungevano ammantati in sontuosi drappi di broccato messaggeri e scaltri mercanti, intenti a contrattare le clausole e stimare i dazi del loro viaggio fino alla lontana terra di Cina.

E proprio dalla Cina proveniva il favoloso carico di porcellane imballato con paglia e stipato dentro casse di legno di sandalo, all'ingresso della locanda frequentata da commercianti di ogni dove. Gli uomini con i turbanti gesticolavano freneticamente e battevano il palmo della mano sulle spesse assi dei banchi allestiti per le contrattazioni.

" Cento ducati d'oro " offrì all’improvviso il fiero gentiluomo veneziano, avvolto in un corto mantello di lana con il collo di visone.

" Duecento " ribatterono a gesti i venditori del fragile, inestimabile carico. Più di centocinquanta ducati di oro zecchino non poteva offrire il giovane Marco giunto in sella al cavallo lucente, nero come il suo mantello.

L'affare fu concluso. Quattro ragazzotti con pantaloni al polpaccio e alte fasce di raso in vita, sollevarono dai manici di ferro le casse di sandalo.

A Samarcanda si accrescevano sempre le masserizie che i mercanti trasportavano sulle carovane al loro seguito, già colme di tutti i generi di sussistenza. Così si vedevano cammelli carichi ai fianchi di ogni sorta di manufatti, che traboccavano da sacche di pelle e da ceste di midollino intrecciato.

 

Il vecchio con il copricapo si avvicinò lentamente alla grande fontana che zampillava al centro della piazza in terra battuta, nelle cui acque si rispecchiavano i vetri colorati delle finestre ogivali della città. La sua giacca di montone rovesciato era incrostata della sabbia ocra del deserto che la rendeva cuoiosa. Le grosse mani incallite mostravano i segni evidenti del lavoro duro di tutta una vita.

Finalmente la preziosa merce lo avrebbe ripagato delle fatiche della vita stessa.

L'uomo si appoggiò al bordo della vasca ottagonale e frugò con la mano nella borsa appesa alla cintura. Poi la estrasse tinta di un azzurro cupo che riluceva di grani d'oro. " Lazuli ? " gli chiese in quel mentre , con meraviglia, un ricco mercante persiano, che stava bevendo con un calice ad uno dei cento zampilli. " Si " rispose l'uomo " e della migliore minieraafghana " . " Lasciami guardare " insistette il mercante interessato all’acquisto, conoscendoil valore di quelle zolle di azzurro intenso.

Ne prese una, l'analizzò al sole e capì che la purezza di quel lapis era superiore a qualsiasi altro avesse comprato fino a quel momento.

Mai monile di donna era stato ricavato da un minerale di tale pregio e splendore. Mai un colorante così intenso avrebbe potuto essere estratto da altre pietre di blu oltremare.

Il vecchio guardò negli occhi il ricco mercante.Poi gettò inconsciamente, per un istante, uno sguardo alle proprie mani irruvidite. Stava riscattando in quell' attimo il prezzo di un'esistenza senza prezzo. E così, stanco e ormai provato, ma forte della tensione emotiva di quel pensiero, trovò il coraggio di sussurrare ad uno straniero il valore che avrebbe dovuto avere la sua vita.

 

3.a Segnalazione

9° Premio Circolo Culturale Luzi con tema “La Miniera”

Federica Mosca di La Bruna di Castel Rinaldi (PG)

 

FIGLIO DI UN MINATORE

 

La casa della mia infanzia non era molto ricca, come non eravamo ricchi noi: mio padre lavorava sempre, lo vedevo soltanto una volta la settimana: la domenica. Quello per me era il giorno più bello: c’ero io, c’era papà, c’era mamma, c’erano nonno e nonna, tutti insieme, tutti riuniti a festa con l’unico abito bello che avevamo. Nelle famigliedi campagna come la mia infatti, possedevamo tutti soltanto due vestiti: uno per lavorare e l’altro per la domenica: il giorno di papà.

Nella mia casa però stavo bene: era una casetta piccola ad un solpiano, la cucina arredata soltanto da un vecchio tavolo in legno e cinque sedie, una quasi sempre vuota. Di pasti ne facevo uno, a volte due al giorno, ma preferivo farne uno, perché perchè il secondo era quello di mamma che ne faceva a meno per darlo a me; io ero felice di mangiare di più, visto che la fame a volte si faceva sentire, ma mamma non aveva mangiato e i soldi per il pane non bastavano mai, così , ogni tanto, andavo da Antonio, un mio amico, e mi facevo regalare una mela o una pera da portarle; e quando tornavo a casa lei mi abbracciava.

Avevamo anche un camino che d’inverno ci riscaldava e ci faceva stare intorno ad esso a chiacchierare o ad ascoltare le storie narrate da nonna.

Di camere ne possedevamo due: una per me, mamma e papà, l’altra per i miei nonni. Qui non si stava bene, erano le stanze che detestavo di più: la notte non si riusciva a dormire: i letti erano morbidi, ma facevano un rumore insopportabile dalmomento che erano fatti dipaglia e foglie secche. E poi c’era il vaso da notte, che quando era pieno… Infatti non avevamo un vero e proprio bagno; noi, come gli altri del vicinato, andavamo fuori, la doccia ce la facevamo in un’enorme bacinella con l’acqua calda che utilizzavamo in tre per non sprecarla.

Ricordo anche che avevamo un piccolo giardino con i fiori, la passione di nonna, ed un orto ormai sterile ed incolto: mio nonno era ormai troppo anziano perzappare.

La nostra situazione era precaria, ma eravamo felici, o almeno io lo ero: avevo tanti amici con cui correre, scherzare e rotolare fra i campi di grano, e quando mamma aveva finito le faccende di casa, veniva sempre a giocare con me; lei rideva, cantava… non scorderò mai la sua voce: erapiù dolce del miele; la sera poi, quando non riuscivo a dormire perché avevo fame o il vaso da notte non era stato svuotato, veniva accanto a me, si inginocchiava e carezzandomi la testa mi cantava delle canzoncine. Una, una in particolaremi piaceva tanto: l’aveva inventata lei e parlava di papà e del suo lavoro; mi dava gioia per questo; io l’ho ascoltata per tanto tempo, per tante notti, ma in tutto quel tempo non ne compresi mai il significato; però era bella, perché tutte le cose di papà erano belle: i giochi, le parole, la domenica e quindi anche la canzone. Ricordo che iniziava così: Ninna nanna, ninna nanna tesorucciu de mamma e papà, quanno che stasera artorna chi lo sa che arporterà? Rporterà ‘n po’ de carbuni, un pizzittu de speranza Che la paga de li padruni ce ‘rriempa ‘n po’ più la panza… ‘Papà fa lu minatore là li puzzi de Busano, sotto terra lì a Morgnano quante lacrime e sudore. Du’ ore per annà, du’ ore pe’ artornà Ott’ore in galleria e pocu da magnà! Diceva che papà faceva il minatore a Morgnano, ma cos’era un minatore? E dove si trovava Morgnano? Era un paese come il nostro, o una di quelle città ricche con tante case, una come quella di cui mi aveva perlato una volta Antonio?

Ero ancora piccolo, non lo sapevo, e chissà perché non lo chiesi mai a mamma o papà o nonna o nonno; forse perché ero felice così? Probabile, comunque non mi stancavo mai di ascoltare quella ninna nanna; poi, ad u certo punto, anche io entravo in scena, e la canzone continuava così: Ninna nanna, ninna nanna tesurucciu de mamma e papà E speramo che ‘l Signore te potesse ariservà Pe’ la vita e lu futuru un mistieri menu duru Senza lagrime e suspiri pe’ addri tempi meno niri.

E io sorridevo, la fissavo negli occhi verdi e l’abbracciavo, poi cercavo di dormire. Di papà ho pochi ricordi: era un uomo alto e robusto, che vedevo quattro volte al mese; quando tornava a Casa era tutto nero e non riusciva a tenersi in piedi, non sapevo perché. Non glielo chiesi mai. Lui era comunque la mia festa e, pur avendo poca memoria dei tempi trascorsi con papà, ricordo benissimo le sue mani: grandi, forti, mostruosamente rovinate da tagli, calli e cicatrici provocate da quel mistieri tantu duru, e gli occhi, quei suoi occhi pieni di speranza, quegli occhi che no, non scorderò mai. Da bambino potevo osservarci solo la sicurezza e la forza d’un padre perfetto, soltanto poi capii che quei verdi occhi raccontavano la storia d’una vita passata sotto terra, potendo osservare il sole solo all’alba e non ricordando più la bellezza di un cielo stellato, dell’aria fresca, di un campo di grano. Io tutto questo non lo sapevo, e non lo sapevo perché non sapevo cosa significasse fare il minatore, sapevo solo che papà, la sera, tornava tardi, stanco e tutto nero.

Una notte, la notte del 23 marzo 1955 non riuscivo a dormire e chiesi a mamma di cantarmi la canzone che mi piaceva tanto; lei venne in camera nostra, ma era triste, non capivo perché, io non dissi nulla.

Ero tanto felice di sentire la sua voce di miele, anche perchè il giorno precedente, anche se domenica, non avevo potuto vedere papà, ma soltanto il resto della famiglia triste, e ora sentir catare la mamma mi riempiva di gioia. Mentre facevo quei pensieri però, mi accorsi che la canzone era cambiata e continuava così: Quillu ventidue de marzo m’ha strappatu via lu core Fiju mia se che dolore io nun je la faccio più. Du’ ore per annà, du’ ore pe’ artornà Ott’ore in galleria e pocu da magnà! Alle cinque de matina papà tua stia ingalleria, unu scoppiu de grisouno’ lu fece artornà più. Chi lo sa come soffrette poru ome mia adoratu, che sapia de ‘n’ arvedette e morette disperatu. Fiju mia come faremo? Suffriremo zitti zitti, pregheremo la Madonna de campà co’ nonnu e nonna. Du’ ore per annà, ott’ore a lavorà da quillu bruttu jornu n’è pututu più artornà! Ninna oh, ninna oh…Io mi addormentai con tanta domande e tanti dubbi in testa,mentremamma si raggomitolò vicino a me piangendo in silenzio grandi lacrime.

Il mattino seguente ricordo che mi svegliai di buon ora per chiederle come mai avesse cambiato la canzone e perché avesse pianto così tanto, ma quando andai in cucina e vidi mamma, nonna, nonno ed alcuni vicini di casa che si abbracciavano e piangevano, iniziai a capire.

Poi le campane e mia madre che disse di essere forte e che io la dovevo proteggere come aveva fatto in passato papà, perché da quel momento non sarebbe più tornato. In quell’istante tutti i miei dubbi e le mie domande trovarono l’amara risposta.

Poco dopo ci fu il funerale, il primo funerale a cui presi parte e che non dimenticherò mai. Tutti vestiti di nero, tutti che piangevano attorno alla bara di un povero minatore che non poté vedere la luce del sole neanche prima di morire; ma questo mi fu raccontato poi.

Ricordo che piansi, piansi tanto restando sempre abbracciato a mamma, anche lei in lacrime, ma le sue erano lacrime silenziose, lacrime che scendevano piano piano, quasi avessero paura diuscire. In realtà, temeva per me, per lei, per noi.

Fiju mia come faremo? Suffriremo zitti zitti, pregheremo la Madonna de campà co’ nonnu e nonna.

Ed ecco che lentamente tutto mi era più chiaro e più mi si faceva chiaro più piangevo e nascondevo il viso in seno a mamma.

La messa finì, il dolore no.Il funerale finì, il dolore no.Passai quattro giorni interi chiuso in camera, sopra quel letto che tanto detestavo, ma che ora amavo; quattro giorni a piangere in silenzio seduto dalla parte di papà, poi il quinto giorno mi decisi ad uscire fuori. Era sabato, sabato 28 marzo 1955 quando, con la scusa di andare a giocare con Antonio e tornare per cena, decisi di conoscere finalmente il paese della canzone: Morgnano.

Pregai a lungo Pino di accompagnarmi e lui, avendo lavorato con papà ed avendomi visto crescere, non se la sentì di rifiutare. Altre due ore e mezzo di cammino. Du’ ore per annà, du’ ore pe’ artornà…. Poi l’inferno: quella che prima era una miniera – mi spiegò Pino – era saltata in aria e papà era morto lì sotto.

Ricordo che rimasi sconvolto da quella visione: papà non lavorava in uno di quei paesi ricchi e con tante case come mi ero immaginato, ma in un campo di macerie, polvere e carboni, o almeno questo fu ciò che vidi; quello che più di tutto provai però, fu il rimorso di non avergli mai chiesto dove e come lavorasse, e la paura di vedere e, purtroppo, iniziare sempre più a capire.Volevo andarmene, volevo fuggire da quell’incubo: ero troppo piccolo per sopportare una verità così grande.

“Questo è Busano?” Domandai, quasi senza accorgermene.

“Sì” Pino, tentando di non commuoversi, restava ritto accanto a me, sembrava un palo. “E’ qui sotto che lavoravamo io e tuo padre.” Lo guardai.

“E come facevate ad andare sotto? Ci sono tutte macerie!”

“Prima c’era una galleria, ora però il pozzo è crollato.”

Ricordo che a quelle parole sentii una strana sensazione provenire dallo stomaco: PAURA. Tremando, con gli occhi lucidi chiesi:

“E papà? Cosa faceva papà tutto il giorno sotto terra? Perché è crollata la miniera? …Racconta!”

Ricordo che Pino esitò, considerata la mia età ancora troppo giovane, ma poi:

“ Dovevano essere più o meno le sei di mattina del 22 marzo quando tuo padre

stava scavando la roccia alla ricerca di carbone, quando uno scoppio di grisou lo ha fatto saltare in aria insieme alla miniera ed altre ventidue persone.”

“Papà allora rischiava la vita tutti i giorni?”

“Sì, ma lo faceva per voi, per farvi mangiare quel poco pane che ti dà mamma.”

Ero sconvolto, e ancora lo sono.

“Egli altri, gli altri amici di papà, quelli che non sono morti, dove sono?”

“ Dodici sono rimasti feriti, gli altri, come me, in cerca di lavoro. Adesso però basta: sei troppo piccolo e non ti posso dire altro, anzi, ti ho detto troppo. Torna a casa e proteggi Maria: ora sei tu l’uomo di casa”.

Tornammo a casa: altre due ore e mezzo di cammino. Corsi da mamma: l’abbracciai. Venne l’ora di cena: le lasciai la mia parte; era ora di sdebitarsi di tutto l’affetto ed i sacrifici fatti da mio padre.

Passarono i giorni, venne domenica: il giorno di papà, ma lui non era con noi e non ci sarebbe più stato; in quel momento più che mai sentii il dovere di essere l’uomo di casa e sedermi su quella quinta sedia quasi sempre vuota.

Ricordo che mamma notò subito il mio cambiamento, ma non disse mai nulla e, ad essere sincero, a me faceva piacere.

Avevo ormai nove anni, quando iniziò a nascere nella mia testa l’idea di ricordare, di far conoscere la tragedia di quel 22 marzo 1955a Busano, però non sapevo come, o meglio: lo sapevo, ma non avevo i mezzi; non li avevo io, non li aveva mamma, o nonna, o nonno, Antonio, Pino, insomma, in tutto il mio paese, il mio piccolo e povero paese, nessuno mi poteva aiutare: tutti firmavano con una croce; tutti tranne don Carlo. Mi venne un’idea: la domenica, prima della messa, mi sarei fatto insegnare a leggere e scrivere: dovevo scrivere la storia dei minatori, la storia di chi ha il carbone nelle vene e nei polmoni, la storia di chi vede la luce del sole una volta la settimana, la storia di chi, quel sole, non lo ha potuto vedere neanche prima di morire: dovevo scrivere la storia di papà.

 

 

1.a Segnalazione del Circolo Culturale Mario Luzi

Claudia Giacopelli di Parma con il racconto “Diari”

 

DIARI

Elena aveva deciso di riordinare la soffitta. Non si era mai decisa da quanto aveva ereditato la vecchia casa in campagna di sua nonna, un edificio a due piani più la soffitta e un po’ di terra intorno. Quel luogo le piaceva: vi aveva passato le sue vacanze estive con i nonni per molti anni quando era piccola. Ora poteva abitarla solo per il periodo delle ferie oltre qualche fine settimana rubato alle sue faccende.

Si abbigliò comodamente, con un paio di pantaloni larghi e una maglietta quindi, munita di stracci da spolvero e sacchi per la spazzatura salì in soffitta. Quando aprì la porta fu travolta da un senso d’aria chiusa. A fatica aprì il lucernaio. Miriadi di particelle di polvere presero la via d’uscita attraverso quella inattesa apertura.

Elena sospirò, pensando che forse sarebbe stato meglio se fosse andata a sistemare il giardino. Invece, di buona lena, cominciò ad aprire i bauli. Fu una sensazione strana per lei ritrovarsi ad avere fra le mani i vecchi abiti di sua nonna e sentirne ora la leggerezza, ora la corposità, a seconda si trattasse di abiti invernali o estivi. Passò un cappello di paglia, una sottoveste di cotone candido. Quando terminò quel baule, senza peraltro aver gettato nulla, passò ad un altro. Conteneva libri e vecchi quaderni. Fu incuriosita da uno in particolare. Era lì in mezzo agli altri ben tenuti, nonostante la patina del tempo. Invece quel quaderno era come sporco, annerito. Cominciò a sfogliarlo. E lesse:

“Vivo tra pareti di terra e il suo odore si mescola al mio e all’altrui sudore. La fatica sulle spalle curve si dimentica della paura di non tornare fuori. Fuori. Là dove un sole scalda, là dove la stella brilla. Là dove il mondo scorre.

In questa tana oscura anche le ore smettono di scorrere. E il mio fagotto d’amore, i miei sentimenti, li ho posati sulla soglia di questa miniera, prima di entrare.

Qui, l’unica musica è quella del piccone e quando anche la saliva è impregnata di terra e gli orifizi saturi e il fetore insopportabile, quando non sento più la differenza fra la vita e la morte, il suono della sirena mi libera da questo incubo.

Avrei voglia di coltivare i campi. Ma qui si guadagna un po’ di più. Mi chiedo a che mi è servito andare a scuola, se dovevo fare questa vita. Qualcuno ogni tanto crepa, perché respira le polveri che si vanno a depositare nei polmoni. io prego che non mi capiti. Chi penserebbe alla mia famiglia? Faccio qualche anno qui in miniera, poi quando sono riuscito a mettere da parte due soldi, mi compro un campo. Magari una vacca e un paio di buoi. Mia madre non voleva che venissi a lavorare qui. Ma quasi tutti vengono a lavorare qui adesso.

Questo è il mio lavoro e i calli che ho in queste grandi mani sono il guadagno che mi servirà per sposare Anna. Qui sotto si parla poco e si scava molto. Qui sotto anche il riso è amaro e sa di terra. Quando piove molto, la pioggia penetra e l’ambiente diventa umido. Ci si scambiano i turni, noi qui sotto che scaviamo e quelli che trasportano il materiale fuori. Si va a settimane. Una settimana nel grembo della terra e una settimana accanto ai carrelli. Cosa è meglio? E chi lo sa?

Certi giorni è dura stare qui dentro. Ma stringo i denti. Come gli altri. E intanto sogno un campo di grano, il sole. E anche di far l’amore. Con Anna.”

Elena passò a qualche pagina oltre, e lesse di nuovo:

“Oggi non so, ma è più dura stare qui dentro. Sono stanco. Stanco di vivere come un topo. Stanco di non parlare quasi di niente. Stanco di non fare una vita normale. Stanco di dormire nelle baracche, la sera. Mi manchi, Anna. Ho voglia di metter su famiglia e stare a casa con te ad delle cose normali di cui si occupa un uomo. Sono così stanco qui. E non è solo la stanchezza delle membra, che quella non la sento molto. E’ proprio la stanchezza di vivere in questo modo. Ancora un mese e poi questo inferno sarà finito. Farò qualsiasi altro lavoro per vivere, ma qui dentro non ci torno. Basta, basta!”

Elena pensò che si trattasse di suo nonno dal momento che si riferiva ad Anna, sua nonna. Nessuno in famiglia le aveva mai raccontato del passato da minatore del nonno. Lei aveva creduto che facesse l’agricoltore da sempre. I suoi campi sembravano giardini, tanto erano tenuti bene. Pensò per un attimo alla dura vita trascorsa dai suoi nonni: lui nella miniera e lei ad aspettarlo.

Posò il quaderno a terra e rovistò nel baule. Un po’ sotto vide un libercolo foderato di carta a fiori. Aprì a caso e lesse:

“Caro diario, oggi è una giornata piena di sole e mamma ha già detto che dovrò fare il bucato. E’ un po’ faticoso, ma così starò insieme alle mie cugine e potremo parlare un po’ in libertà. Da quando Aldo è andato a lavorare in miniera e mi manca così tanto, ne parlerei ogni minuto. Quasi che, a ricordarlo spesso, l’avessi più vicino.”

Ad Elena si fermò il cuore: dunque non si trattava di suo nonno! Aldo era il promesso sposo di Anna, morto nella miniera.

Altre pagine:

“Caro diario, mi è arrivata una lettera di Aldo. Come sono felice! Dice che gli manco e che fra un mese sarà a casa. Non vedo l’ora! Spero che non torni più a lavorare in miniera. Chi è tornato ha detto che è un lavoro durissimo.”

“Caro diario, è passato molto tempo dall’ultima volta che ho scritto su queste pagine.E’ successo tutto così inaspettatamente. Aldo sarebbe dovuto venire a casa agli inizi di ottobre. Ero così contenta! Invece la mano crudele del destino si è abbattuta su Aldo. E su di me. Ho versato così tante lacrime che ora non riesco più a piangere… il mio Aldo… i nostri sogni.. i nostri progetti… tutto morto, tutto… A causa della pioggia incessante è franata la montagna e la galleria dove stava lavorando Aldo è crollata. Lui, e tutti quelli che lavoravano con lui, sono morti là sotto. Dieci. Dieci vite seppellite in un attimo. Hanno provato a soccorrerli, scavando. Ma non sono riusciti. Sono ancora là sotto, ora, che sono passati sei mesi. Cosa sarà la mia vita senza Aldo? La sento così inutile…”

Elena leggeva pagine in modo sparso, per cercare di capire qualcosa della vita di sua nonna.

“Caro diario, mia madre vuole che mi sposi. Dice che non posso continuare a pensare ad Aldo. Aldo non c’è più. Mi suona così strano. Aldo è qui con me, sempre. Anche ora. Come farò a stare con un altro?”

“Caro diario, ho conosciuto Franco, l’altra sera, a casa di Elvira. E’ un giovane simpatico. Mi ha chiesto se vado con lui alla festa di San Giovanni. Mia madre insiste e dice che dovrei accettare. Forse gli dirò di si.”

“Caro diario, ci sono giorni che Aldo mi manca così tanto. Sono due anni che non c’è più, ma lo sento vivo dentro di me.”

“Caro diario, ieri sono stata alla festa di San Giovanni e devo dire che mi sono divertita molto. Franco è stato con me tutta la sera ed è stato molto gentile e simpatico. Mamma lo vuole invitare a pranzo, domenica prossima.”

“Caro diario, è quasi un anno che non ti scrivo più. Sono successe molte cose. Intanto con Franco ci siamo fidanzati e… due domeniche fa ci siamo sposati. Suo padre ci ha dato una vecchia casa da sistemare con il terreno intorno da coltivare. Non vedo l’ora di mettermi all’opera. Penso spesso ad Aldo. L’ho così tanto amato e lo porterò nel mio cuore per sempre. Sono certa che accompagnerà la mia vita con la sua silenziosa presenza. L’amore quando è grande non muore mai. Franco? Gli voglio molto bene e lo rispetterò finché avrò vita e cercherò di renderlo felice.”

Elena si rese conto che aveva passato tutto il pomeriggio in soffitta e aveva scoperto che sua nonna aveva molto amato un altro uomo prima di suo nonno.

Si rialzò, guardò tutte quelle vecchie cose. Come avrebbe fatto a gettarle via? Erano i ricordi della vita dei suoi nonni. Affettivamente, ora, erano le sue cose. Elena chiuse il lucernaio, tirò la porta dietro sé, come se chiudesse un mondo lontano. Ma quel quaderno un po’ annerito con i pensieri di Aldo e il diario di sua nonna, sarebbero stati la sua lettura preferita nei giorni a venire. In quelle poche righe lette aveva capito quanto può essere davvero forte ed esclusivo un amore.. Quella notte ripensò al Aldo in miniera e ad Anna che l’aspettava. Al loro amore ferreo come quel ferro che Aldo sottraeva con fatica a quella terra a volte un po’ amara. Ripensò al suo rapporto con Riccardo, sempre in bilico fra i si e i no. E decise che non sarebbe più stata così. Avrebbe deciso per l’amore, quello grande, quello vero. Un amore come quello di Aldo e Anna.

 

 

2.a Segnalazione del Circolo Culturale Mario Luzi

Rosa Romano Bettini di Acerra (NA) con il racconto “Notteando”

 

NOTTEANDO

 

Non riesco a stare ferma! Da più di un’ora gli stessi gesti: avanti e indietro, cucina, soggiorno e finestra. Qui mi fermo econtrollo. La mano tesa a trattenere la tenda, scruto il cortile, più in là il cancello e infine la strada.

Nessuno! solo la nebbia e la luce azzurrognola dei lampioni.

Sono esattamente le quattro e Mara non è ancora tornata.

Erano le tre quando mi sono svegliata con la sensazione che qualcuno mi stesse chiamando. Mi sono alzata e passando nel corridoio, ho visto che il suo cappotto non c’era, e neppure la borsa.

“Non è ancora tornata” ho pensato “tornerà a minuti, l’aspetto”.

Sto ancora aspettando.

Attorno, è silenzio. Guido dorme. Vorrei che si svegliasse, così potremmo parlare, non importa se per accusarci l’un l’altro!

Ma Guido continua a dormire e io cammino su e giù per la stanza.

Aspetto Mara.

Con la mente mi prefiguro la scena: un clic nella serratura,la chiave che gira, s’accende la luce nel corridoio e lei entra in punta di piedi, miguarda, un sorriso appena accennato …

Non ce la faccio! Lachiamo sul telefonino, e se si arrabbia pazienza. I patti erano chiari:alle tre, non un minuto di più. Così compongo il suo numero, pronta a investirla di tutta l’ansia che ho dentro, ma una voce antipatica mi risponde: “Il cliente ha il cellulare spento” E allora sprofondo nel vuoto. Come puòessere? Lo tieneacceso di giorno e di notte!

Non riesco a controllarmi, è successo qualcosa, mi dico.E’ colpa nostra, anzi mia,direbbe Guido. Secondo lui le ho concesso tutto e troppo in fretta,senza spiegarle i pericoli della vita, e senza mai impormi, anche quando avrei dovuto farlo.

Calmati, via, non fare una tragedia per un po’ di ritardo! Mi rimprovero, si sarà fermata a chiacchierare, lo sai come sono i ragazzi, magari sta facendo l’amore.

L’amore? Mia figlia che fa l’amore con uno…?Mi si gela il sangue al pensiero. Non riesco a immaginarla tra le braccia di un uomo, d’accordo che prima o poi dovrà accadere, ma non adesso, ha solo diciotto anni, al sesso non ci pensa per niente.

E se qualcuno le avesse usato violenza? Impossibile! C’eraSara con lei, e anche Alessandro e Stefania, non voglio e non devo pensarci.

Ritorno alla finestra, ma non ho il coraggio di scostare la tenda, dietro c’èsolo l’asfalto imbiancato di brina.

Vorrei essere una sensitiva, una di quelle persone capaci di far navigare il pensiero: bar discoteche cinema e poi ancoraabissianfratti ovunque ci sia una forma di vita,così dapoterla raggiungere, scoprire dov’è, cosa sta facendo, se ha bisogno di me.

Forse habisogno di me e non lo so.

Tra noisi è creata una distanzache prima non c’era,nonricordoquando è cominciato

Questo silenzio, che non è solo di adesso, ma un assaggio di ciò che sarà domani e dopodomani, ogni giorno più insopportabile, inascoltabile…

Penso a quando lafiglia ero io, con mia madre non si scherzava, le sue regole erano ferree, però anch’io ho trasgredito. Ma sì, meglio il sesso,anche con uno sconosciuto maldestro, piuttosto che…

Dieci anni fa, il telefono alle quattro di notte, e una voce stridula, indimenticabile: “Qui è l’ospedale, Marco, vostro figlio, ha avuto un incidente”

Così, vestiti di fretta ea metà, Guido e io siamo saliti su unamacchina vecchia, (la nuova l’aveva Marco). In corsa, sull’autostrada,verso uno sconosciuto ospedale, distante più di quaranta chilometri, con poca o niente benzina.

Quaranta chilometridi paura. Guido tutto occhifissi alla strada,io “Sta attento, fermati alla prima pompa che vedi”, la mente a rincorrere l’unicavitale speranza:“Portategliun pigiama”, aveva detto la voce. Avevamo chiuso la portacon addosso questa speranza, mentreil gattosaltava impazzito e sembrava volesse venire con noi.

Il gatto? Dov’è? Non l’ho ancora visto, eppure sono sveglia da un pezzo! Era molto agitato, quella notte!Andava su e giù, come un’anima in pena;ancor prima che chiamassero dall’ospedale, ci aveva svegliato coi suoi lamenti. Loro, gli animali,lo fiutano il pericolo.

Stanotte però non si sente.

Stupidaggini, la verità è che sono le quattro passate edi Mara neppure l’ombra, è’ successo qualcosa, sono sicura!

Le lacrime spingono contro le palpebre, vogliono scendere, stanno per scendere, e io m’immagino il peggio mentre fisso il telefono muto. Ora suona mi dico, ora fende il silenzio e inizia a squillare.

Devo svegliare Guido.

E… magari chiamare la polizia.

Prima però faccio un ultimo tentativo: telefono alla sua amica Sara.

Così, sia pure conun senso di angoscia (mi fa impressione vedere la stanza vuota,il letto teso e ben fatto)vadoin camera di Mara, per cercare il numero del telefonino di Sara, e nell’attimo in cui accendo la lucevedo, fissidavanti a me, gli occhi sbarrati del gatto.

Nello stesso preciso momentoMara fa un balzo sulletto.

“Mamma, che c’è? che succede? ” mi domanda spaventata.

“Sei qui?” sto per chiederle, poi resto immobile, meravigliosamente sorpresa. Vorrei abbracciarla baciarla accarezzarla, eschiaffeggiarla anche,perché m’ha fatto star male e non m’ha fatto dormire lo sa che al mattino mi devo svegliare presto, non è così che si fa, perché non ha messo il cappotto al solito posto?

Ma non dico nessuna di queste cose. ”Tranquilla” rispondo. “E’ che non trovavo più il gatto”.

 

 

 

Segnalazione Insegnanti del Circolo Culturale Mario Luzi

Angela Spagnoli di Massa e Cozzile (PT)

 

PANE E GRANO

 

Saranno state le nove o poco meno, l’aria fresca del mattino stava cedendo il passo a quella che sarebbe diventata una calda giornata estiva.

Si era alla fine di giugno ed il cielo azzurrissimo, campo d’aviazione per le rondini in cerca di cibo, ai miei occhi di bambina, sembrava immenso.

Io e la mamma camminavamo lungo il redolone che da via Fiume menava al nostro campo: la Maggese.

Si portava la colazione ai mietitori: il nonno Beppe, il babbo, lo zio Demo e due opre di Caldana, che, sin dalle prime luci dell’alba, erano a falciare il grano.

A sinistra e a destra, delimitate dalle prode delle viti, si stendevano quelle terre che mi hanno cresciuto: un campo di grano con le spighe ancora immature, un prato di trifoglio dal tenue colore, un campo di girasoli con le rigogliose piante già alte come me.

I mietitori erano al lavoro ormai da quattro ore e quello era il momento di fare una sosta e la prima vera colazione della giornata, perchè il lavoro poi continuava, duro, fino al pranzo che veniva consumato verso mezzogiorno e mezzo.

Da una parte la mamma e da quell’altra io, si reggeva in due, tenendolo per il manico, un grosso paniere di vimini con la roba da mangiare.

Arrivati al nostro campo, s’uscì dalla redola e s’entrò nel segato.

I mietitori, da curvi che erano, si rizzaron sbrigandosi a dare le ultime falciate, se volevano finire il covone.

C’era, tra le viti, un pero gigantesco, tanto grande che io mi ci misuravo sempre, cioè controllavo se mi si erano allungate le braccia, cercando di abbracciarne il fusto; non ci sono mai riuscita...

A uno a uno, levandosi il cappello di paglia e tergendosi il sudore dalla fronte con la pezzola, venivan verso noi che intanto avevamo posato quel grosso paniere di vimini in terra, tra l’erba.

“- Brava Dina - disse il nonno Beppe, nascondendo a fatica il piacere – l’hai portato il salame che s'è cominciato iersera?..e l’arista sott’olio?.”

-“ Si, e ho portato anche il pane fresco e un pezzetto di quel pecorino che ci ha lasciato il pastore, l’altro giorno.”-

Intanto gli uomini erano andati a lavarsi le mani e il viso nella fossa, poi si pettinavano i capelli con le dita delle due mani unite, dalla fronte alla nuca a mo’di pettine.

Intanto la mamma aveva messo in mostra le vivande, levando il tovagliolo bianco che le ricopriva e ripiegandolo coscienziosamente.

Il babbo prese un coltello e cominciò ad affettare il pane; il nonno, sul tagliere, affettava il salame a fette massiccie.

Questa scena si svolgeva all’ombra della proda dove, dopo un poco, non si udirono più parole.

Se non fosse stato per le cicale, in quel momento, in quel posto, ci sarebbe stato il più perfetto silenzio!

Che bei silenzi eran quelli!

Non si poteva però indugiare troppo ai piaceri del palato, e fatto un riposino, ripresero le falci che intanto il nonno Beppe s’era preoccupato di "battere".

Con un curioso martello dalla testa stondata picchiava sul taglio della falce appoggiandola ad una piccola incudine quadrata, infissa nel terreno.

Era un lavoro delicato perchè non si doveva picchiare forte, altrimenti si sarebbe assottigliata troppo la lama che avrebbe retto poco; al tempo stesso non si poteva fare nemmeno il contrario perchè la falce non avrebbe tagliato; bisognava quindi essere un po’maestri, come del resto accadeva anche in altre operazioni necessarie per il lavoro dei campi.

Io rimasi lì, a guardare la mietitura.

Una delle "opre" prendeva i covoni e li rizzava sul gambo appoggiandone insieme sette o otto, i gambi larghi e le teste ravvicinate in modo che si tenessero in piedi l’un l’altro.

L’opra era fatta e la giornata stava per finire; un sole rossastro, lentamente, s’era andato a nascondere dietro Montepescali; lì c’era rimasto solo il nonno Beppe ed io che l’aspettavo per tornare a casa con lui.

Lo vidi fare una cosa strana ai miei occhi di bimba, ma non tanto, a ripensarla oggi, da adulta: andò alla proda delle viti e levando di tasca il suo roncolino, tagliò la cima di due canne; poi si avvicinò alla rossa salciaia e ne trasse un rametto tenero, legando con questo le due canne a forma di croce; s’avvicinò senza proferir parola ad un covone e ve la infisse, in modo che sovrastava tutte le spighe.

Rimase così un attimo, poi:

-Andiamo bimba, andiamo a casa che tra un po’ vien buio-.

Era scesa la quiete della sera: le cicale si erano zittite.

Le ombre delle prode e dei pioppi giganteschi s’allungavano sui coltivati, sulle redole e sull’aie dei poderi.

Il mio nonno, con la destra, raccolse il cappello prendendolo per la falda e la giubba per il colletto; se li buttò dietro le spalle e allungò la sinistra verso di me.

In silenzio, quasi come soprapensiero, aprì la mano con gesto invitante e io sentii sulla mia, la sua che si stringeva.

Ci incamminammo così: un vecchio contadino ed una ragazzetta.

S’arrivò a casa senza dire una parola; io non capivo bene perchè, ma ero contenta.

Si entrò nell’aia quasi come due innamorati; ed era quasi notte…

 

 

 

2° Premio Speciale LAV – Lega Antivivisezione

e Segnalazione Circolo Culturale Mario Luzi

Serenella Bianchi di San Gimignano (SI)

 

EMILIA E IL RICCIO

Emilia spalancò la porta della bottega. Quel mattino l’aria era fresca, leggera, e la via inaspettatamente silenziosa, quasi deserta. Ad un tratto, meravigliata, s’accorse che nell’angolo vicino alla vetrina, nascosto fra le fioriere, c’era un piccolo riccio, aggomitolato, immobile. Si avvicinò piano e vide sul dorso, fra gli aculei, una ferita che aveval’apparenza di un foro. Il riccio cominciò a muoversi, alzò il muso appuntito annusando l’aria e tremando, la guardò con i suoi occhietti neri. In quel momento, Emilia decise di non abbandonarlo. Dopo averlo preso con molta cautela, lo mise dentro una scatola di cartone reperita nel retrobottega. Poi comprò i farmaci e i disinfettanti necessari per medicare la ferita, ma il riccio impaurito ritirava il muso e le piccole zampe sotto il ventre, stava rannicchiato in un angolo della scatola.

Così il giorno dopo decise di portarlo in campagna, al podere di suo padre, distante pochi chilometri. Un appezzamento di terreno che si estendeva lungo il fiume. Coltivato con peschi ed alcuni filari di viti. Lì c’era un vecchio orto, in disuso da anni, a suo tempo recintato con canne e chiuso da un cancello; il luogo ideale per tenerci un po’ il riccetto, che con il passare dei giorni divenne più tranquillo. Si addomesticò un poco.

Il tempo scorreva rapidamente ed Emilia sapeva bene che il riccio, ormai guarito, doveva andare in letargo. Trovare un rifugio sicuro, protetto, per affrontare il lungo periodo di sonno. Venne il momento di lasciarlo andare.

Quella domenica mattina di Novembre tutto faceva presagire l’inverno, la nebbia leggera, gli alberi spogli, la pioggerella fredda e insistente. Emilia lasciò aperto il cancello e se ne andò lentamente, senza mai voltarsi. L’animaletto non la seguì, come faceva di solito, probabilmente capì. Arrivò presto quell’inverno. Nella famiglia di Emilia accaddero alcuni tristi avvenimenti. Furono interminabili ed angosciosi quei giorni trascorsi negli ospedali e tanti i problemi difficili da affrontare. Ma lei non amava parlare delle sue vicende familiari, né esprimere i propri pensieri e sentimenti, Il dolore era qualcosa di intimo, privato, che teneva dentro. Quell’esperienze le cambiarono l’esistenza, sentiva un senso di vuoto, di solitudine e un’ombra di malinconia, di tristezza, le velò il viso. Lo stress accumulato in quel periodo le aveva lasciato come una strana sensazione di oppressione, un nodo in gola, che nessun farmaco riusciva a sciogliere. Consumò interi barattoli di miele; certe volte diceva ridendo che si addolciva la vita, perché non ce la faceva a mandarla giù.

Oramai trascorreva al podere molte delle sue domeniche. Amava stare all’aperto e in cuor suo sperava di rivedere almeno una volta il riccio.

Era appena primavera, i peschi cominciavano a fiorire sotto il tepore del sole. Emilia, vicino all’argine del fiume, guardava una famiglia di germani che seguivano la corrente, un manto di foglie secche cadute dai pioppi l’inverno prima, faceva da tappeto e copriva tutt’intorno. Il vento rimandava dal fiume una certa umidità. Stava per andarsene, quando sentì un lieve fruscio, voltandosi vide il riccio camminare sopra le foglie.

Lo riconobbe, sul dorso gli mancavano alcune spine. Lui si fermò per un lungo istante, tirando l’aria con quel nasetto. Poi scomparì fra i mucchi di fogliame. Lo incontròsoltanto un altro paio di volte; ma la certezza della sua presenza la rendeva allo stesso modo contenta.

Avevano costruito quell’inverno, sfortunatamente proprio vicino al podere un raddoppio ferroviario, progettato anni prima. Due binari passavano al di là di un’alta rete metallica e una strada sterrata divideva il podere dalla ferrovia.

 

Emilia una mattina di buon’ora, camminava per quella strada, si godeva il profumo del biancospino fiorito sul ciglio. Quando sollevando lo sguardo si accorse che lungo il binario camminava proprio il riccio; non potendo passare il reticolato, gridò. L’animale rimase fermo per un po’ ad ascoltare, o forse le era sembrato così. Restò impietrita. Sentì il rumore del treno e lo vide all’orizzonte avvicinarsi come un mostro minaccioso; mentre il merci passava, chiuse gli occhi per alcuni interminabili secondi, trattenendo il respiro.

Quando li riaprì il riccio non c’era più. L’emozione la fece barcollare, si sedette per terra, strinse i pugni dalla rabbia e avvertì un brivido lungo la schiena.

In quel momento una nuvola oscurò il sole.

Inaspettate cominciarono a scivolare le lacrime su viso di Emilia. Stava piangendo sommessamente. Infine, veniva fuori tutto il dolore chiuso nel profondo del suo animo. Si sorprese, sentendosi stranamente sollevata da quella sensazione di oppressione che l’accompagnava da lungo tempo. Si alzò. Un vento leggero si levò d’improvviso ed il sole fece di nuovo capolino tra le nuvole.

 

 

SEZIONE B – POESIA EDITA -

 

1.a Segnalata del Circolo Culturale Mario Luzi

Rosino Maranesi di San Mauro Pascoli (FC)

 

A MIO PADRE

 

 

Un intenso profumo nell'aria

 

trasportato da un soffice vento

 

le narici riempiva di fresco

 

ed un senso beato di luce

 

avvolgeva il tragitto festoso

 

si specchiava un benevolo sole

 

sulla lastra lucente del fiume

 

luccicanti correvano i campi

 

ricoperti di frutti invitanti

 

ricercando la linea battuta

 

in lambretta sulla strada brecciata

 

rannicchiato tra sedile e manubrio

 

allacciato alla guida a mio padre.

 

 

 

SEZIONE B - NARRATIVA EDITA -

 

 

1.a Classificata

2° Premio Comunità Montana Colline Metallifere tema “La Miniera”

Nicoletta Di Cecio di Grosseto

 

 

LE STAGIONI DELLA MINIERA

 

Il luogo dove si trovava la miniera era lontano dai centri abitati,bisognava camminare almeno un’ora prima di giungere all’antro scuro che si apriva alla base della montagna. Eravamo suddivisi in gruppi, ci alternavamo con turni di dodici ore: erano situazioni difficili e faticose.

 

Al mattino bisognava alzarsi presto, lavarsi con l’acqua fredda e mangiare alla spicciolata una fetta di pane raffermo bagnato in una ciotola di latte,poi si prendeva il cesto con i pochi viveri preparati dalla sera prima – per lo più erano gli avanzi della cena -e ci si incamminava per i sentieriche s’inerpicavano lungo un irto pendio.Dopo mezz’ora i respiri diventavano affannosi, a volte la luna ci illuminava il percorso mentre nelle giornate nebbiose e grigie dell’inverno dovevamo aiutarcicon le lampade ad olio o con delle rudimentali torce.

 

Ogni stagione ci regalava una diversa emozione: l’inverno era triste con le sue giornate fatte di brina e di neve o quando la pioggia incessante ci faceva rabbrividire sotto le incerate che non riparavano nulla dall’umidità; si entrava nell’antro scuro che era ancora notte e si usciva che era sempre notte.I giorni d’inverno rendevano la mente chiusa ed ottenebrata ad ogni speranza, ogni giorno la tristezza riempiva l’anima e il timore di rimanere chiusi negli angusti cunicoli amareggiava lo spirito. Si percorreva il tratto di strada consapevoli della stanchezza che s’impossessava di noi. Gli alberi scheletrici erano illuminati dal lieve chiarore delle stelle e sembravano mostri pronti a ghermirci. Trascinavamo i piedi su un letto di foglie ormai marce, i nostri scarponi scivolavano sul terreno umidiccio. Nella sua tragicità l’inverno era carico di magia, in particolare quando tutto si vestiva di bianco, quando al mattino vedevi un chiaro pallore diffondersi nel buio, era la luna che dopo la lunga nevicata notturna si faceva spazio tra le nubi ancora cariche di neve e faceva brillare nella tetra oscurità il biancore della terra. In quegli istanti, tutto era possibile, tutto poteva accadere, nonostante il freddo e l’acqua gelata faceva arrossire la pellee conil vento gelido giungeva a noi intenso il profumo della legna bruciata nei camini, mentre l’aria odorava di una lieve fragranza resinosa. La neve stessa aveva un suo odore, il freddo stesso profumava di pulito. L’aria era impalpabile, quando non soffiava il vento, la sua consistenza lieve come un velo si adagiava sulle cose e sulle persone e la magia era vigorosa, la neve attutiva i nostri passi e anche se il cammino durava unpo’ di più, eravamo consapevoli che la magia di quel momento sarebbe rimasta impressa in noi.

 

C’erano giorni, poi, in particolar modo quelli che precedevano la sacralità di una festa che lungo il cammino recitavamo le lodi o i vespri, secondo l’ora o il giorno questo perché a volte avevamo bisogno di coraggio per affrontare il cammino e il coraggio per quellagiornatalo prendevamo dalle preghiere.

 

Il nostro respiro congelava al contatto con l’aria fredda dell’inverno, si spandeva intorno come nuvola leggera e il nostro incedere era reso lento dalle nevicatechemettevano a dura prova la nostra resistenza fisica eppure nonostante la fatica, la povertà, il duro cammino e il duro lavoro, il nostro cuore era sereno, la nostra anima attingeva forza dalle emozioni e dalle sensazioni che ci donava il rigido inverno.

 

Poi pian piano l’inverno si eclissava, la neve si scioglieva e potevamo vedere di giorno in giorno i cambiamenti della natura, a volte percepivamo i crepitii dei rami ed avevamola sensazione che gli alberitendessero i loro rami come arti, come quando ci si sveglia da una lunga dormita; erano i giorni della primavera che carichi di energia e di positività al mattino ci davano la spinta e così, mentre camminaviritrovavi la compagnia delle stelle e la sera quando si tornava era bello farsi rapire dai cangianti colori dei dorati crepuscoli, l’aria fresca del mattino e quella tiepida della sera medicavano gli animi ingrigiti dalla polvere e dal nero e i polmoni tornavano a respirare aria fresca e pulita.

 

Era il tempo in cui c’era poco, é vero, ma benché le privazioni e il duro lavoro in miniera, potevamo contare sugli amici, i vicini, su noi stessi e tutto era comunque faticoso, ma appagante. Era il tempo in cui il poco che avevamo ci rendeva ricchi e anche se doloranti sapevamo sorridere nelle sere di primavera durante le passeggiate nel ritrovarsi a bere un bicchier di vino ricordando persone care ormai scomparse.

 

La primavera rallegrava gli animi, ci portava speranza, ci regalava il primo tepore dopo il freddo inverno e prima del caldo intenso dell’estate. Guardavamo stupiti l’evolversi della natura, la domenica nei boschi raccoglievamo i primi frutti selvatici e le donne ci regalavano colorate marmellate, andavamo alla scoperta del primo miele per regalarlo a timide ragazze nella speranza che con l’estate sarebbero diventate finalmente fidanzate. Ascoltavamo i risvegli del bosco gli spostamenti furtivi delle frasche, la brezza lieve che giocava con i primi germogli. Eravamo sempre grigi minatori, ma gli occhi brillavano di celate speranze e di voglia di vivere.

 

L’estate, poi, arrivava leggera con lunghe giornate assolate, era vestita con un tripudio di colori e di calore, finito il turno era refrigerante per il corpo e per lo spirito lasciarsi rapire dalla frescura degli alberi o correre ad immergersi nelle fresche acque del lago; la fatica era sempre dolorosa sui nostri corpi stanchi e provati dalla miniera ma sapere di poter ancora godere di qualche ora di luce era rigenerante per ognuno di noi.

 

Nelle lunghe camminate per tornare a casa coglievano i frutti del bosco e carichi dei loro profumi raggiungevamo casa e portavamo allegria con i nostri carichi di colorati frutti. Avevamo la sensazione che quel benessere non avesse mai fine. Malgrado l’estenuante lavoro, nei cuori avevamo le note della gioia. I nostri abiti da lavoro lisi e scoloriti erano accantonati, e una volta ripuliti della terra e del sudore indossavamo abiti semplici per piccole passeggiate verso il paese. Ma ogni gioia ha breve durata e anche l’estate lasciava il posto a ben altra stagione.

 

I giorni pian piano cominciavano il loro declino, e l’autunno si apprestavaaccorciando i giorni dell’estate, cambiava la luminosità, al mattino quando si partiva da casa non vedevamo più l’aurora, ma ci accompagnava il cielo stellato nei giorni sereni e scuro e buio quando minacciava il temporale. L’umore si alternava con le stagioni, nei giorni d’autunno il nostro animo s’incupiva, inveivamo contro i padroni che sfruttavano il nostro lavoro, imprecavamo contro le cattive condizioni, l’orario disumano che ci costringeva a lunghi camminamenti e a lunghe ore sotto terra. Eppure quello era il nostro pane quotidiano, quelle quattro lire che rappresentavano il nostro salario era tutto quello che avevamo. C’erano giorni in cui non riuscivamo a godere dei colori dell’autunno, le foglie cadevano come le nostre speranze che venivano sopraffatte dalla stanchezza e dal duro lavoro. Non riuscivamo a cogliere l’infinita beltà dell’autunno, sapevamo solo pensare all’inverno che già si apprestava nelle gelide folate di novembre o nelle fredde gocce di pioggia che già facevano presagire un nuovo gelido inverno. Oggi ripensando a quel tempo tutto ciò che ritorna alla mente sono un arcobaleno di emozioni, profumi, odori e sensazioni.

 

La miniera ormai è chiusa da tempo, il suo ciclo produttivo è finito e là, dove prima regnava grigiore e fatica, pozzanghere di fango e polvere nera, ora là, intorno all’entrata,hanno trovato casa arbusti ed erba, dall’alto cade fitta l’edera a cascata e s’intrufola dentro, ricoprendo le pareti di terra e ciò che rimane delle impalcature di legno. Sicuramente piccoli animali del sottobosco ne han fatto la loro casa. La pioggia s’intrufola con piccoli rivoli che scendono dall’alto e corre giù, infondo nascondendosi. Le stagioni hanno continuato il loro ciclo, la miniera è sempre là, solitaria nello scorrere dei giorni e delle stagioni la vegetazione è diventata più fitta, non c’è più nessuno a livellare il sentiero e a tenerlo periodicamente pulito per le lunghe camminate. Ogni tanto ripercorro con la mente quel sentiero e mi piace pensare che sia diventato il regnoincontrastato d’ogni forma di vita del sottobosco.Mi piace pensare che madre natura stia rimodellando l’ambiente intorno secondo i suoi gusti e le sue necessità. Forse uno di questi giorniandrò a cercare il vecchio sentiero e sarà come riappropriarsi della propria gioventù e potrò, così, rivivere le emozioni delle mie “stagioni in miniera”.

 

 

1.a Segnalazione

Roberto Palloccadi Roma

 

NEL FRATTEMPO – LETTERA A CHI SIONO STATO

 

Nel frattempo mio padre è morto, mia madre si è tagliata i capelli corti corti che sembra una ragazzina e Laura (sì, la piccola Laura, ricordi?) si è quasi laureata, le manca qualche esame soltanto e ha le stesse guance di una volta, solo un po’ più magre. Ha un promesso sposo che la aspetta da una vita, senza fretta, e vuole aprire uno studio tutto suo. Non ci crederai, ma Claus non abbaia più quando qualcuno passa a pochi metri dalla rete del recinto, ha capito che quel recinto, come tutti gli altri, ha poco senso, al pari di distinguere dentro o fuori, se il cielo che c’è sopra è lo stesso per tutti.

La casa adesso ha un piano in più, dove abito io. L’ha fatto costruire papà quando intuì che il mio desiderio di indipendenza diventava un bisogno. Nemmeno riuscì a vederlo finito che perse la vita in uno di quegli assalti al cuore chiamato infarto. Così accadde che, all’improvviso e con una casa tanto desiderata e tutta nuova da vivere, il desiderio più grande diventò quello di vivere con mamma e Laura, nella vecchia. Sempre così i sogni, non fai in tempo a viverli che si alterano.

Ho perso anche Teresa, qualche tempo fa. Si, lo so, tu credevi tanto nell’amore, specialmente in quello eterno e mi dicevi sempre di tenerla stretta, Teresa. Ti piaceva. Ma forse l’ho stretta troppo, o forse lei aveva bisogno di un uomo vero, non di un bambino come me, che le chiedeva attenzioni, affetto, carezze. E anche consigli, lo ammetto.

Nel frattempo ho pensato tanto a cosa ne è di quel che si è stati quando non lo si è più. Di cosa accade, nel frattempo e in silenzio, ad un livello talmente profondo e così impercettibilmente, che ti sorprendi diverso senza aver percepito il cambiamento. Ora ho più nostalgia di quel passato che desiderio di un futuro. Perché quel passato lo conosco, c’eri tu, c’erano poster grandi quanto le pareti della camera e mensole piene di soprammobili inutili e impolverati. C’erano i Lego ancora buoni per costruire tante cose, sempre diverse e comunque belle. E c’erano pupazzi e mostriciattoli senza testa, biliardini mezzi arrugginiti in cui rincorrersi a steccate, chitarre sempre troppo scordate per suonare quel che avresti voluto senza saperlo. C’erano negozi pieni di fumetti in cui passare pomeriggi e fontanelle d’acqua fresca in ogni piazza. C’erano baci innocenti che incendiavano il cuore e carezze accennate da ricordare per sempre. C’erano incomprensioni da fingere per sembrare grandi e caschi da mettere per volare via. Non so se si può avere a tal punto malinconia di questo da non volerlo quasi, il futuro. Non lo so. Sarà che mi manchi. Sarà che c’ho messo davvero tanto a digerire la tua scelta di mollare tutto e restare laggiù, la scelta di lasciarmi solo a crescere nella vita.

Dopo ho compreso che non avevi avuto scelta, che i bambini restano sempre dove si gioca a nascondino, a contare numeri imprecisi su un muro scrostato del cortile. A bisticciare con la signora che buca i palloni finiti nel suo giardino e li tiene tutti in bella vista come deterrente e alza la ringhiera di un metro perché così non la possiamo scavalcare.

Ho voglia di sedermi a terra, in cerchio con gli amici miei. Che se mi fermo a pensarci nemmeno li ricordo. Ma dove sono? Che fine hanno fatto? So che uno di loro è sposato e aspetta un figlio, un altro è a Barcellona insieme a una spagnola conosciuta a Londra, Giorgia lavora lontano per poter ritornare un giorno, Carlo lavora proprio qui sotto e sogna di andare lontano. Degli altri non so niente, sono anni che ci siamo persi di vista, o forse sarebbe più giusto dire che sono anni che ci si siamo persi di vita.

Ho voglia di un pallone che basta a ridere a squarciagola, che è proprio questo l’anno buono per vincere lo scudetto. Ho voglia dell’estate che si conta da quando montano la bancarella di cocomeri giù alla piazza e degli skate con le ruote consumate. Ho voglia delle scarpe da ginnastica tutte rotte e delle corse sui prati innaffiati dagli irrigatori. Ho voglia di attaccare di notte il nastro adesivo ai citofoni delle case e di fare gli scherzi dalla cabina del telefono. Ho voglia di andare a suonare ad un amico senza avvisarlo con un sms, ho voglia di non pensare alle tariffe dei cellulari. Ho voglia di mare, di costumi sempre umidi e tavolini sempre sommersi di carte. Ho voglia di lecca lecca e incarti di gomme da masticare strappate per sapere l’iniziale di chi ti ama davvero. Ho voglia di metro e autobus pieni di gente, di Roma al sabato pomeriggio.

Ho voglia di gelati e giochi da tavola, ho voglia di guardare occhi che mi guardano. Ho voglia di tutte queste cose inutili, ho voglia dei miei ricordi. Vorrei avere il numero di telefono dei miei rimpianti, vorrei chiamarli, parlarci un po’, immaginare nel dettaglio cosa sarebbe stato seguire altre strade. Vorrei capire perché le cose vanno sempre in un certo modo e mai in un altro e perché nessuno può rifiutarsi di crescere. Vorrei capire come attenuare quell’ansia addolorante che lasciano nel cuore i futuri che potevano essere. E magari avere giusto il tempo di un caffé per parlare con quelle persone che ho perduto senza saperlo, che non ho neppure salutato. Perché nessuno sa quando è proprio quella l’ultima volta che vede qualcuno. Tu come te la passi laggiù? Anche lì hanno messo ovunque i parcheggi a pagamento e costruiscono continuamente mucchi di case senza senno? Anche lì i ragazzi non escono più e i genitori divorziano dopo essersi sposati per sempre? Anche lì le ragazze pesano come una foglia e passano giornate dentro al bagno? Anche lì i computer sono sempre accesi e pieni di discorsi scritti ora e ora dimenticati? Anche lì le televisioni sono roventi, le persone spente e entrambi vuote? Anche lì le favole non esistono più e i Lego possono costruire una cosa soltanto? Dimmelo ti prego, anche lì hanno perso le parole? Anche lì l’amore è diventato un’opinione e la vita un particolare? Anche lì c’è sempre troppo caldo o troppo freddo, troppa fretta o troppa calma? Anche lì la gente non può star sola nemmeno nella foresta più incontaminata? Anche lì?

Perché, sai, quando si cresce poi capita che si dimentica. Capita che si percepisce tutto normale, che si sviluppa quel sentimento bruttissimo che tutti chiamano indifferenza e che, ironia della sorte, tutti ignorano quanto sia importante. Quando si cresce capita che all’improvviso quello che conta diventa ciò che ti è attorno, non ciò che hai dentro. Capita che conosci una donna e diventi suo e parli a chiunque di lei e mai di te. Capita che perdoni sempre tutti per ogni cosa, eccetto te stesso. Capita che comprendi la differenza tra chi a tavola si riempie d’acqua il bicchiere solo quando ha sete e chi se lo tiene pieno nell’attesa di averne. Capita che non hai più voglia di correre, perché hai corso già, e ti accontenti di camminare, anzi di trascinarti. E non importa se non sei arrivato da nessuna parte, smetti e basta. Capita che fai l’abbonamento per andare a lavoro e non ti chiedi più se esistono altre strade, se esistono altri sentieri, magari. Capita che diventi qualcuno che non sai e che non vuoi e non fai niente per non esserlo più, perché sei esausto, e ti arrendi a una vita che odi invece che rimetterti i guantoni e lottare ancora. Oggi vorrei capire perché le cose cambiano, nel frattempo; perché il tempo snatura anche i sogni, e senza realizzarli quasi mai. Vorrei capire perché io non sono più te e non me ne sono accorto. Perché sono qui ad aspettarti, nella convinzione che sia giusto che il passato ritorni, perlomeno quello più bello, in cui siamo stati davvero felici senza esserne consapevoli. Ti ho aspettato, ti ho aspettato tanto. Volevo dirti che quando si è bambini si spera in una vita che ci renderà felici, ma poi si comprende che è proprio quel sognare la felicità. E che tutti siamo stati felici, prima di crescere. L’imbroglio è che si cresce soli, ci si lascia le mani che si tenevano strette, si diventa nuclei che si vivono accanto, ma che hanno ognuno la propria assurda e differente direzione, le proprie paure, i propri valori. Ognuno è solo tanto quanto è vivo. E mi chiedo cosa manca a tutti quanti. E cosa li trattiene qui. Mi chiedo perché si avverte normale perdere qualcuno, perderlo per sempre e non ricordarlo più.

Claus è vecchio, ma si fa rispettare ancora. Mia sorella probabilmente avrà tre figli da chissà chi, ha sempre voluto far di più di mamma. Io qui sono disperato. Ma non c’è perché a queste lacrime se non la tua assenza. Rinuncerei a quel che sono e quel che ho per tornare da te, ma nel frattempo ne sono successe, maledizione. Succede sempre qualcosa nel frattempo. Sempre qualcosa. Nel tempo ho sempre cercato di dare di più, perché credevo giusto che dessi il massimo. Potrei dirti che ho vinto nella vita. Potrei dirti che ho un lavoro, delle ambizioni, che me la passo bene, tutto sommato. Potrei dirti che scrivo per me stesso e per chi leggendomi riesce a riflettere un po’. Potrei dirti che ho tutto. Ma cosa potrei dirti di ciò che sono e che sarò? Potrei dirti che troverò una donna ancora migliore e che sarò felice. E che sarò importante, che sarò qualcuno. Ma io, qualcuno, lo sono già stato. E anche felice. E forse è meglio, che non sei tornato, lo sai? Sarà che t’immagino gioioso e mi sembra bello, quando qualcuno non lo vedi da un pezzo, immaginarlo così. Ora sei laggiù, da una vita, e non ti sei mosso. Io sono qui a ricordarti in questa stanza dalle pareti bianche e vuote. Io non sarò più te, tu non diventerai mai me. Ed è terapia. A volte mi sono augurato di dimenticarti invece che ricordarti, ho avuto la tentazione di strappare questa tua foto che tengo sul comodino in cui sorridi teneramente con due denti soli. Buttarla via.

Invece adesso l’ho tolta dalla cornice, la tengo in mano. La farò ingrandire.

 

 

Sezione C – L’Europa -

 

1° Premio Regione Toscana

e Circolo Culturale Mario Luzi

Armando Bettozzi di Roma

 

 

ALZHEIMER

 

Come tela di ragno,

avvolge lentamente,

e inesorabile preme

meschina, per la resa

dell’indifesa vittima e tutto annulla,

e toglie anche il decoro.

 

E la mente ricopre

di impalpabile nebbia

che addensa pian piano e ne fa muro,

e quello che v’è inciso lo cancella.

 

E avida scava intorno una trincea

per la lunga prigionia

che sfianca e svuota e rende, inconsapevole,

pronto il corpo - ormai dimenticato -

ad impietosa e solitaria agonia.

...................................................

Nel tuo deserto senza orizzonti,

senza, ormai,storia,

va alla deriva senza un’emozione

quel tuo bel navigar, senza più approdo.

 

 

 

2.a Classificata

Marina Maria Iosè Riotto di Punta Marina Terme (RA)

 

L’AQUILONE CHE NON POTEVA VOLARE

(Fiaba)

 

Questa è la storia di un aquilone di nome Gigì.

C’era una volta nella città di Odialì, nella valle vicino al mare, una fabbrica di aquiloni, belli come il sole e colorati come lo sono solo i fiori in primavera.Il proprietario del laboratorio, il signor Judì, non aveva

neanche il tempo di effettuare le spedizioni dei suoi begli oggetti volanti ai bambini di tutto il mondo che, queglistraordinari manufatti, andavano subito a ruba tra i fanciulli del luogo.

Cosicché, una volta, il buon Judì decise d’escogitare uno stratagemma al fine di far felici, finalmente, tutti gli altri bimbi del globo.

Diede ordine ai suoi operai che, da allora in poi, lasciassero costantemente incompiuti una parte dei nuovi manufatti.

“Alcuni aquiloni lasciateli senza un occhio, altri senza la bocca, altri lasciateli con mezza coda! ”andava disponendo con determinazione,passando fra i tavoli del suo grande laboratorio.

Tutto ciò, affinché quegli aquiloni, ancora incompiuti, risultassero, così, praticamente invendibili.

La notte, quindi, pian pianino, il signor Judì, che era un vero mago nel costruire aquiloni, completava ciò che era stato iniziato il giorno prima e, la mattina presto, andava con il suo furgoncino presso la distribuzione internazionale degli aquiloni, affinché questi ultimi prendessero il volo col primo aereo a disposizione al fine di raggiungere i più reconditi siti europei.

Tale astuto espediente durò per moltissimo tempo, tanto che il signor Judì, nel frattempo, diventò molto vecchio ed un giorno, ahimé, dovette lasciare la sua dimora terrena, per raggiungere quella degli angeli.

“E gli aquiloni?” direte voi.

E già, purtroppo alcuni aquiloni rimasero chiusi nel loro nascondiglio ed ancora incompiuti.

Per fortuna, però, erano solo tre.

Il buon Judì, infatti, sentendosi venir meno le forze, aveva dato ordini ai suoi manifatturieri di diminuire il numero degli aquiloni incompleti, ma, dato che li aveva ben nascosti,

nessuno poteva sapere dove fossero.

Una volta, però, Jenni, la gattina bianca del buon Judì, durante le sue brave perlustrazioni in cucina in cerca di cibo, si arrampicò su di un armadio, le cui ante, per lo scossone ricevuto, si spalancarono. Che meraviglia! I tre aquiloni eran proprio lì dentro ed, in men che non si dica, scivolarono giù, sul pavimento, in tutto il loro splendore.

Tuttavia, gli aquiloni recuperati eran soltanto due: il terzo infatti, rimase bloccato, nella sua discesa a terra, da un gomitolo di filo di seta che, durante la baraonda originata da quel terremoto di Jenni, era scivolato un po’ più giù, mettendosi di traverso e bloccando così la fuoruscita del nostro sfortunato aquilone.

Qualcuno, l’indomani, andando nella stanza per le pulizie, scoprì con gioia quei due magnifici aquiloni che furono condotti immediatamente alla fabbrica del signor Judì per essere completati e poter raggiungere così qualche bimbo, rendendolo molto, ma molto felice. I due aquiloni salvati avrebbero voluto gridare al mondo intero che in quell’ armadio c’era un altro loro fratellino, ma nessuno poteva udirli.

Nessuno poteva interpretare il loro linguaggio disperato.

Al povero Gigì non rimaneva altro che sognare e sognare ancora di volare, aleggiando nell’infinito, tra le urla di gioia dei bimbi.

Sentiva già su di sé la brezza carezzevole del mare ed il soffio dolcissimo del vento che lo portava in alto, sempre più in alto, dominando alberi, fiori e verdi colline.

Per il dolore, pianse di un pianto mesto, senza lacrime, arricciandosi su di sé e stropicciando quell’unico occhio di cui era stato dotato.

I giorni, da allora, passarono mesti e sempre più lunghi, quando, un mattina, il sole impietositosi per la tristezza sempre più profonda dell’aquilone, decise di allungare i suoi raggi e di raggiungere la stanza del nostro famoso armadio che fu investito da una potentissima e strana luce.

L’aquilone allora distese la sua mezza coda, cercò con forza di rialzarsi dal ripiano superiore dov’era stato adagiato a suo tempo ed ascoltò una voce calda, quanto familiare: “Non scoraggiarti piccolo mio, non perdere la fiducia: adesso io sono nella luce e ti libererò!”

All’improvviso le ante dell’armadio, grazie a quella grande energia, si aprirono e l’aquilone Gigì fu investito da un luce potentissima.

“Signor Judì!” furono le uniche parole che riuscì a pronunciare il magnifico manufatto. L’emozione di rivedere il suo creatore era,

infatti, talmente grande da non poter più proferire altro.

“Fra qualche ora imparerai a volare anche tu. Sarai finalmente libero e felice!”

I raggi del sole si ritirarono pian pianino dalla stanza, lasciando, però, un gradevole tepore ed un magico chiarore.

Adesso il nostro aquilone Gigì è in Kossovo.

Corre felice insieme ad un bimbo di nome Ibrahim.

 

Nel suo atto testamentario, infatti, il buon Judì aveva scritto che una parte degli aquiloni dovevano essere destinati a progetti umanitari, come previsto dall’articolo 20 del regolamento (CE) n.1257/96 del Parlamento europeo in materia di interventi umanitari.

 

 

1° Premio Speciale Giovani Europei

Valentina Gori(anni 13) diBorgo a Buggiano (PT)

 

 

RICORDI DI UN PAESE COMUNISTA

Sono nata nel 1955, pochi anni dopo che i miei genitori si erano sposati e trasferiti dalla campagna in città, nella capitale: Bucarest, dove il mio babbo aveva trovato lavoro in fabbrica.

Venivamo tutti dalle campagne, perché i comunisti avevanorequisito i terreni agricoli e il bestiame, formando le “cooperative agricole di produzione”.

Avevamo costruito una casa con tre stanze e una piccola cucina.

Il gabinetto era fuori ( il bagno a quei tempi non esisteva, i miei l’hanno costruito appena nel 1999), ma solo una stanza era pronta per cui vivevamo tutti e quattro insieme.

Da piccola, mi è garbato tanto il formaggio, mi raccontava la mamma che lo chiedevo sempre, ma ce l’avevamo solo quando veniva il nonno a trovarci con il carro e ne portava un po’.

Avevano una capra e di quel poco che facevano, metà lo portavano a noi.

Quando non c’era, la mamma mi metteva in ogni mano un pezzo di polenta e mi diceva:- Fai finta che un pezzo è formaggio, così mangi polenta e formaggio-.

Tra i miei ricordi di bimba, il più bello è quello delle “coline”: canzoni di natale che i bimbi cantavano nella sera della vigilia davanti alle case, chiedendo prima il permesso.

Dopo aver cantato, i padroni di casa regalavano dei piccoli doni, qualche spicciolo, noci e ciambelle secche.

Andavamo volentieri a casa del prete che ci regalava sempre delle mele, per noi era il massimo.

Tanti bimbi venivano a casa mia perché sapevano che la mamma faceva sempre i bomboloni.

Era un piacere mangiare un bombolone caldo in quella sera gelida e piena di neve.

A quei tempi, gli inverni erano molto freddi, nel mio paese spesso c’erano 25 gradi sotto zero.

Quando andavamo a trovare i nonni in campagna nelle vacanze natalizie, cantavamo le “coline”, ricevevamo ciambelle molto dure e noci.

Ognuno di noi aveva una sacca con la tracolla, tornavamo a casa quando era piena e ci mettevamo a contare chi aveva più ciambelle e più noci, poile mettevamo su un filo di spago agganciatoad un chiodo sopra il letto.

Le mattine seguenti, a colazione, mangiavamo quelle ciambelle inzuppate nell’infuso di tiglio nel quale la nonna metteva, oltre lo zucchero, un pezzettino di burro per renderlo più saporito, il latte non l’avevamo.

Le ciambelle erano fatte con farina ed acqua, perché nella nostra religione si fa una specie di quaresima anche per Natale, come per la Pasqua.

Durante questo periodo non si mangia, oltre la carne, nessun alimento che proviene dagli animali, come latte, uova ecc.

Un altro ricordo della campagna, durante le vacanze estive, è legato alle mele che si vedevano raramente nella mia infanzia.

Non c’erano perché in pianura non le coltivavano e noi abitavamo nella pianura del Danubio.

Allora i montanari venivano con i carri pieni di mele e le barattavano con il granturco.

Io, mio fratello e i miei cugini, rubavamo le pannocchie nel granaio per scambiarle con qualche mela.

C’è un altro periodo più forte nella mia adolescenza, quando cominciai le superiori.

Non è bello: io ero l’unica della mia classe che non aveva gli stivali!

Nel mio paese era freddoe c’era tanta neve.

La mamma mi metteva un paio di calzini alti di lana e le scarpe più grandi.

Gli stivali li ho avuti nel 5° anno di liceo.

Nel 1976 iniziai a lavorare in una fabbrica di cioccolato, avevo 21 anni e non avevo ancora mangiato le arance.

In fabbrica si usavano per fare i canditi.

Quando arrivava il camion, usavano noi giovani, che facevamo parte dell’Unione della Gioventù Comunista”, per scaricare e sbucciare le arance fuori orario e gratuitamente.

Però non era un volontariato da parte nostra, ma un obbligo che chiedeva il Partito Comunista.

Nonostante la fatica, io andavo contenta perché mangiavo a sazietà le arance e poi potevo comprarle anche senza buccia e portarle ai miei a casa.

Chi riusciva a comprare le arance e le banane per il Natale si considerava fortunato.

Arrivati agli anni ottanta, cominciò la crisi assoluta.

In fabbrica iniziò l’uso delle farine e grassi vegetali che rendevano la cioccolata e i prodotti derivati, immangiabili.

Così, nonostante la crisi, non si vendevano, tanti tornavano indietro dopo la scadenza, alterati.

Del resto i negozi alimentari erano completamente vuoti.

I pochi prodotti che si trovavano, si vendevano “sotto banco”, cioè di nascosto, pagando di più.

Carne, formaggi erano un sogno!

Per comprare latte, pane, zucchero, olio (di girasole, c’era solo questo nel mio paese) si dovevano fare delle file di ore sotto il sole d’estate o congelandosi i piedi e le mani nell’inverno.

Bastava vedere un gruppo di persone davanti ad una “alimentara” e si sapeva che stavano per vendere qualcosa.

A volte ci si metteva in fila senza chiedere che vendevano, perché qualunque cosa fosse, andava bene; mancava tutto, addirittura la carta igienica.

Il tempo libero era solo una corsa per alimenti.

Poi c’era il freddo che Ceausescu chiedeva di combattere con una maglia in più.

Poi ci sono state le manifestazioni di “gioia e ringraziamento” davanti al Partito Comunista ed il suo presidente, tutti i 1° di Maggio ei 23 di Agosto, il giorno dalla liberazione dall’occupazione fascista.

Si partiva alle cinque di mattina e si tornava di sera tardi; tutta la giornata in piedi per salutare lui, il dittatore!

Durante il regine comunista, non si poteva andare nei paesi occidentali, solo in quelli comunisti, Unione Sovietica, Bulgaria, Ungheria, ecc..

Non si poteva andare nemmeno in chiesa, nonostante ciò, ci andavamo quasi tutti, zitti, zitti.

Così siamo arrivati al 1989, quando, con la cadutadel comunismo, è iniziato il cammino verso la democrazia.

 

2° Premio Speciale Giovani Europei

Luca Socci di Greve in Chianti (FI) con la poesia “L’Europa”

 

 

L'Europa

 

L'Europa è una grande nazione

 

Dobbiamo esserne cittadini con passione

 

L'Europa di lingue e dialetti è un matrimonio

 

Per noi più prezioso di un patrimonio

 

L'Europa è un insieme di religioni

 

Che vanno trattate con rispetto

 

E un culto diverso non è certo un difetto

 

 

L'Europa è un insieme di trattati

 

Che da tutti gli Stati devono essere rispettati

 

 

L'Europa è una grande realtà

 

Spero proprio si espanderà

 

 

 

IL CIRCOLO CULTURALE MARIO LUZI DI BOCCHEGGIANO RINGRAZIA SENTITAMENTE TUTTI COLORO CHE HANNO CONTRIBUITO A REALIZZARE LA TERZA EDIZIONE DEL BANDO LETTERARIO ED IN PARTICOLARE I COLLABORATORI DIRETTI CHE HANNO ESPRESSO IL MEGLIO DELLA LORO PROFESSIONALITA’:

 

GIURIA

 

Dr. Alessandro Angeli di Grosseto

Prof. De Ninis Lorenzo di Lignano Sabbioadoro (UD) - Poeta

Dott.ssa Del Sambro Antonia di Scandicci (FI) – Giornalista e critidca letteraria

Prof.ssa Maramotti Maria Grazia di Firenze - Poertessa

Prof.ssa Trombetti Caterinadi Scandicci (FI) – Poetessa

Dott. Santoro Salvatore Armando, poeta, narratore e

Presidente della Giuria e del Circolo

 

 

REGIA

Miguel Rosario

(che ha curato anche la scenografia e le luci)

 

 

LETTURA E DECLAMAZIONE TESTI

 

Chiara Bindi – Attrice

 

Claudio Maddalon

Salvatore Armando Santoro

 

Zannerini Rinaldo

di Caldana di Gavorrano (GR)

per il simpatico intermezzo con la lettura della poesia estemporanea

“I tre giorni del colpo sciolto”

(Rievocazione in chiave satirica di una vecchio avvenimento di miniera)

 

 

MUSICISTI

 

Hugo Robert Drews – Chitarra Classica

e

Marco Bruni – Flauto

 

 

Riprese filmate

Giancarlo Guernieri

 

 

Collaboratore di sala

Poggi Neno

 

 

e con un particolare ringraziamento a

Traditi Carlo – Assessore alla Cultura ed ai Servizi Sociali del Comune di Montieri

e Donati Paolo – Assessore al Turismo del Comune di Montieri

per il loro sostegno morale e materiale profuso per la riuscita della manifestazione