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POESIA DEL NOVECENTO ITALIANO - PASCOLI GIOVANNI - Biografia ed opere (da Wikipedia)
Giovanni Pascoli(Tratto da Wikipedia, L'enciclopedia libera)
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« La nube nel giorno più nera / fu quella che vedo più rosa / nell'ultima sera »
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(Giovanni Pascoli, La mia sera, Canti di Castelvecchio.)
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Giovanni Agostino Placido Pascoli (San Mauro di Romagna, 31 dicembre 1855 – Bologna, 6 aprile 1912) è stato un poeta italiano e una figura emblematica della letteratura italiana di fine Ottocento.
Pascoli, malgrado la sua formazione eminentemente positivistica, è, insieme a Gabriele D'Annunzio, il maggior poeta decadente italiano. Dal Fanciullino, articolo programmatico pubblicato per la prima volta nel 1897, emerge una concezione intima e interiore del sentimento poetico, orientato alla valorizzazione del particolare e del quotidiano e al recupero di una dimensione infantile e quasi primitiva. D'altra parte, solo il poeta può esprimere la voce del "fanciullino" presente in ognuno: quest'idea consente a Pascoli di rivendicare per sé il ruolo, per certi versi ormai anacronistico, di "poeta vate", e di ribadire allo stesso tempo l'utilità morale (specialmente consolatoria) e civile della poesia.
« Il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non maestro, non tribuno o demagogo, non uomo di stato o di corte. E nemmeno è, sia con pace del maestro Giosuè Carducci, un artiere che foggi spada e scudi e vomeri; e nemmeno, con pace di tanti altri, un artista che nielli e ceselli l'oro che altri gli porga. A costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione, che il modo col quale agli altri trasmette l'uno e l'altra [...] »
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(G. Pascoli - da Il fanciullino)
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Pur non partecipando attivamente ad alcun movimento letterario dell'epoca, né mostrando particolare propensione verso la poesia europea contemporanea (al contrario di D'Annunzio), Pascoli manifesta nella propria produzione tendenze prevalentemente spiritualistiche e idealistiche, tipiche della cultura di fine secolo segnata dal progressivo esaurirsi del positivismo. Complessivamente, la sua opera appare percorsa da una tensione costante tra la vecchia tradizione classicista ereditata dal maestro Giosuè Carducci e le nuove tematiche decadenti, cui si accompagna un notevole sperimentalismo metrico e fonetico.
Indice |
Biografia
Per pochi scrittori come per Pascoli le vicende della prima giovinezza furono determinanti nello sviluppo creativo della maturità: sembra quasi impossibile comprendere il vero significato di gran parte - e sicuramente la più importante - della sua produzione poetica, se si ignorano i dolorosi e tormentosi presupposti biografici e psicologici che egli stesso riorganizzò per tutta la vita, in modo ossessivo, come sistema semantico di base del proprio mondo.
Anni giovanili
Giovanni Pascoli nacque il 31 dicembre 1855 a San Mauro di Romagna (oggi San Mauro Pascoli in suo onore), in una famiglia agiata, quarto dei dieci figli - due dei quali morti molto piccoli - di Ruggero Pascoli, amministratore della tenuta La Torre della famiglia dei principi Torlonia, e di Caterina Vincenzi Allocatelli. I suoi familiari lo chiamavano affettuosamente "Zvanì".
Il 10 agosto 1867, quando Giovanni aveva quasi dodici anni, il padre Ruggero venne assassinato con una fucilata mentre sul proprio calesse tornava a casa da Cesena. Le ragioni del delitto, forse di natura politica o forse dovute a contrasti di lavoro, non furono mai chiarite e i responsabili rimasero per sempre oscuri, nonostante tre processi celebrati e nonostante la famiglia avesse forti sospetti sull'identità dell'assassino, come traspare evidentemente nella poesia La cavalla storna: il probabile mandante fu infatti il malavitoso Pietro Cacciaguerra (al quale Pascoli fa riferimento, senza nominarlo, nella lirica Tra San Mauro e Savignano), possidente e contrabbandiere, che voleva succedere a Ruggero nell'incarico, mentre i due sicari furono Luigi Pagliarani detto Bigecca (probabilmente colui che è invece sottinteso come assassino ne La cavalla storna), e il suo complice Michele Dellarocca, estremisti politici che lo consideravano un "servo dei padroni", oltre a essere entrambi coinvolti in affari illeciti nella zona della Torre.[1][2]
Il trauma lasciò segni profondi nella vita del poeta. La famiglia cominciò dapprima a perdere gradualmente il proprio stato economico e successivamente a subire una serie impressionante di lutti, disgregandosi: costretti a lasciare la tenuta, l'anno successivo morirono la madre, per un attacco cardiaco e la sorella Margherita, di tifo, nel 1871 il fratello Luigi, colpito da meningite, e, successivamente, nel 1876 il fratello maggiore Giacomo, anche lui di tifo, che aveva tentato inutilmente di ricostituire il nucleo familiare a Rimini. Le due sorelle Ida e Maria furono messe dal tutore, uno zio, a studiare nel collegio del convento delle monache agostiniane, a Sogliano al Rubicone, dove rimangono dieci anni, mentre i quattro fratelli vivranno insieme, e Giovanni studierà a Urbino dagli Scolopi, grazie ad un assegno per gli studi concesso dai Torlonia, che danno anche a Giacomo la possibilità futura di divenire un loro agente.
Nella biografia scritta dalla sorella Maria, Lungo la vita di Giovanni Pascoli, il futuro poeta viene presentato come un ragazzo solido e vivace, il cui carattere non è stato alterato dalle disgrazie; per anni, infatti, le sue reazioni parvero essere volitive e tenaci, nell'impegno a terminare il liceo ed a cercare i mezzi per proseguire gli studi universitari, nonché nel puntiglio, sempre frustrato, nel ricercare e perseguire l'assassino del padre.
I primi studi
Nel 1871, all'età di sedici anni e dopo la morte del fratello Luigi avvenuta per meningite il 19 ottobre dello stesso anno, Pascoli dovette lasciare il collegio Raffaello dei padri Scolopi di Urbino, e si trasferì a Rimini, per frequentare il liceo classico Giulio Cesare; giunse a Rimini assieme ai suoi cinque fratelli: Giacomo (19 anni), Raffaele (14), Alessandro Giuseppe, (12), Ida (8), Maria (6, chiamata affettuosamente Mariù).
«L'appartamento, già scelto da Giacomo ed arredato con lettini di ferro e di legno, e con mobili di casa nostra, era in uno stabile interno di via San Simone, e si componeva del pianterreno e del primo piano», scrive Mariù: «La vita che si conduceva a Rimini… era di una economia che appena consentiva il puro necessario».
Pascoli terminò infine gli studi liceali a Cesena dopo aver fallito l'esame di licenza a Firenze.
L'università e l'impegno politico
Grazie ad una borsa di studio di 600 lire (che poi perse per aver partecipato ad una manifestazione studentesca) Pascoli si iscrisse all'Università di Bologna, dove ebbe come docenti, tra gli altri, il poeta Giosuè Carducci e il latinista Giovanni Battista Gandino, e diventò amico del poeta e critico Severino Ferrari. Conosciuto Andrea Costa ed avvicinatosi al movimento anarco-socialista, cominciò, nel 1877, a tenere comizi a Forlì e a Cesena.
Durante una manifestazione socialista a Bologna, dopo l'attentato fallito dell'anarchico lucano Giovanni Passannante ai danni del re Umberto I, il giovane poeta lesse pubblicamente un proprio sonetto dal presunto titolo Ode a Passannante. L'ode venne subito dopo strappata (probabilmente per timore di essere arrestato o forse pentito, pensando all'assassinio del padre) e di essa si conoscono solamente gli ultimi due versi: «con la berretta del cuoco, faremo una bandiera!».[3] La paternità del componimento fu oggetto di controversie, poiché la sorella Maria e Piero Bianconi negarono che egli abbia scritto tale ode (Bianconi la definì «la più celebre e citata delle poesie inesistenti della letteratura italiana»[4]). Tuttavia, Gian Battista Lolli, vecchio segretario della federazione socialista di Bologna, era presente durante la lettura e attribuì al poeta la realizzazione della lirica.[5]
Pascoli fu arrestato il 7 settembre 1879, per aver partecipato ad una protesta contro la condanna di alcuni anarchici, i quali erano stati a loro volta imprigionati per i disordini generati dalla condanna di Passannante. Durante il loro processo, il poeta urlò: «Se questi sono i malfattori, evviva i malfattori!».[6] Dopo poco più di cento giorni, Pascoli esce di galera ed entra in una fase di depressione, nella quale più volte pensa al suicidio, decidendo di non riprendere gli studi. Si sente un fallito e deve essere ospitato dal fratello. Come poi scriverà in una lirica, in questo periodo sente come le voci dei suoi cari defunti che lo incoraggiano e lo incitano a ricominciare gli studi per diventare sostegno per la famiglia. Nonostante le simpatie verso Passannante in età giovanile, nel 1900, quando Umberto I venne ucciso da un altro anarchico, Gaetano Bresci, Pascoli rimase amareggiato dall'accaduto e compose la poesia Al Re Umberto. Abbandona la militanza politica, mantenendo un vago socialismo umanitario che spinga all'impegno verso i deboli e alla concordia universale tra gli uomini, argomento di alcune liriche:
« Pace, fratelli! e fate che le braccia / ch'ora o poi tenderete ai più vicini, / non sappiano la lotta e la minaccia. »
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(I due fanciulli)
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La docenza
Dopo la laurea, conseguita nel 1882 con una tesi su Alceo, Pascoli intraprese la carriera di insegnante di latino e greco nei licei di Matera e di Massa. Qui volle vicino a sé le due sorelle minori Ida e Maria, uscite dal collegio, con le quali tentò di ricostituire il primitivo nucleo familiare.
Il 22 settembre 1882 fu iniziato alla massoneria, presso la loggia "Rizzoli" di Bologna. Il testamento massonico autografo del Pascoli, a forma di triangolo (il triangolo è un simbolo massonico), è stato rinvenuto nel 2002[7]
Dal 1887 al 1895 insegnò a Livorno al Ginnasio-Liceo "Guerrazzi e Niccolini", nel cui archivio si trovano ancora lettere e appunti scritti di suo pugno. Intanto iniziò la collaborazione con la rivista Vita nuova, su cui uscirono le prime poesie di Myricae, raccolta che continuò a rinnovarsi in cinque edizioni fino al 1900.
Vinse inoltre per ben tredici volte la medaglia d'oro al Concorso di poesia latina di Amsterdam, col poemetto Veianus e coi successivi Carmina.
Nel 1894 fu chiamato a Roma per collaborare con il Ministero della pubblica istruzione. Nella capitale pubblicò la prima versione dei Poemi conviviali (Gog e Magog), ed ebbe modo di conoscere e frequentare Gabriele D'Annunzio, il quale lo stimava, anche se il rapporto tra i due poeti fu sempre complesso.
Il "nido" di Castelvecchio
Costretto dalla sua professione di docente universitario a lavorare in città (Bologna[8], Messina[9] e Pisa[10]), egli non si radicò mai in esse, preoccupandosi sempre di garantirsi una "via di fuga" verso il proprio mondo di origine, quello agreste. Tuttavia il punto di arrivo sarebbe stato sul versante appenninico opposto a quello da cui proveniva la sua famiglia.
Nel 1895 infatti si trasferì con la sorella Maria in Garfagnana nel piccolo borgo di Castelvecchio nel comune di Barga, in una casa che divenne la sua residenza stabile quando poté acquistarla col ricavato della vendita di alcune medaglie d'oro vinte nei concorsi. Affettivamente legato in maniera quasi eccessiva alle due sorelle, per preservare quello che pareva essere un "nido familiare", Pascoli addirittura annullò l'imminente matrimonio con la cugina Imelde Morri, e mai accettò il matrimonio della sorella Ida (avvenuto il 30 settembre dello stesso anno), che considerò come tradimento.
Si può addirittura affermare che la vita moderna della città non entrò mai, neppure come antitesi, come contrapposizione polemica, nella poesia pascoliana: egli, in un certo senso, non uscì mai dal suo mondo, che costituì, in tutta la sua produzione letteraria, l'unico grande tema, una specie di microcosmo chiuso su sé stesso, come se il poeta avesse bisogno di difenderlo da un minaccioso disordine esterno che, però, rimase innominato e oscuro, privo di riferimenti e di identità, come lo era stato l'assassino di suo padre. Sull'ambiguo e tormentato rapporto con le sorelle - il "nido" familiare che ben presto divenne "tutto il mondo" della poesia di Pascoli - ha scritto parole di estrema chiarezza il poeta Mario Luzi:
« Di fatto si determina nei tre che la disgrazia ha diviso e ricongiunto una sorta di infatuazione e mistificazione infantili, alle quali Ida è connivente solo in parte. Per il Pascoli si tratta in ogni caso di una vera e propria regressione al mondo degli affetti e dei sensi, anteriore alla responsabilità; al mondo da cui era stato sbalzato violentemente e troppo presto. Possiamo notare due movimenti concorrenti: uno, quasi paterno, che gli suggerisce di ricostruire con fatica e pietà il nido edificato dai genitori; di investirsi della parte del padre, di imitarlo. Un altro, di ben diversa natura, gli suggerisce invece di chiudersi là dentro con le piccole sorelle che meglio gli garantiscono il regresso all'infanzia, escludendo di fatto, talvolta con durezza, gli altri fratelli. In pratica il Pascoli difende il nido con sacrificio, ma anche lo oppone con voluttà a tutto il resto: non è solo il suo ricovero ma anche la sua misura del mondo. Tutto ciò che tende a strapparlo di lì in qualche misura lo ferisce; altre dimensioni della realtà non gli riescono, positivamente, accettabili. Per renderlo più sicuro e profondo lo sposta dalla città, lo colloca tra i monti della Garfagnana dove può, oltre tutto, mimetizzarsi con la natura. »
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([M. Luzi, Giovanni Pascoli])
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In particolare si fecero difficili i rapporti con Giuseppe, che sposò una vedova con figli di un membro della famiglia Pagliarani di San Mauro, che Pascoli riteneva coinvolti nell'omicidio del padre; dopo la fine del matrimonio Giuseppe metterà in imbarazzo Giovanni a Bologna, ubriacandosi continuamente in pubblico nelle osterie, convivendo con la figliastra e minacciando il poeta di denuncia per presunti maltrattamenti durante l'infanzia, mentre il marito di Ida, che poi la abbandonerà con i figli piccoli, gli chiede continuamente soldi per i suoi debiti, che Pascoli comunque spesso gli concede.[11]
Gli ultimi anni
Le trasformazioni politiche e sociali che agitavano gli anni di fine secolo e preludevano alla catastrofe bellica europea, gettarono progressivamente Pascoli, già emotivamente provato dall'ulteriore fallimento del suo tentativo di ricostruzione familiare, in una condizione di insicurezza e pessimismo ancora più marcati, che lo condussero in una fase di depressione e nel baratro dell'alcolismo: il poeta abusa di vino e cognac, come riferisce anche nelle lettere.[12][13] Le uniche consolazioni sono la poesia, e il suo "nido di Castelvecchio", dopo la perdita della fede trascendente, cercata e avvertita comunque nel senso del mistero universale, in una sorta di agnosticismo mistico, come testimonia una missiva al cappellano militare padre Giovanni Semeria: "Io penso molto all'oscuro problema che resta... oscuro. La fiaccola che lo rischiara è in mano della nostra sorella grande Morte! Oh! sarebbe pur dolce cosa il credere che di là fosse abitato! Ma io sento che le religioni, compresa la più pura di tutte, la cristiana, sono per così dire, Tolemaiche. Copernico, Galileo le hanno scosse."
Mentre insegnava latino e greco nelle varie università dove accettava l'incarico, pubblicò anche i volumi di analisi dantesca Minerva oscura (1898), Sotto il velame (1900) e La Mirabile Visione (1902). Quindi il 1906 assunse la cattedra di letteratura italiana all'Università di Bologna succedendo a Carducci. Qui ha allievi che saranno poi celebri, tra cui Aldo Garzanti.
Nel novembre 1911, presenta al concorso indetto dal Comune di Roma per celebrare il cinquantesimo dell'Unità d'Italia, il poema latino Inno a Roma in cui riprendendo un tema già anticipato nell'ode Al corbezzolo esalta Pallante come il primo morto per la causa nazionale e poi deposto su rami di corbezzolo che con i fiori bianchi, le bacche rosse e le foglie verdi, vengono visti come una anticipazione della bandiera tricolore. Scoppiata la guerra italo-turca, presso il teatro di Barga pronuncia il celebre discorso a favore dell'imperialismo La grande Proletaria si è mossa: egli sostiene infatti che la Libia sia parte dell'Italia irredenta, e l'impresa sia anche a favore delle popolazioni sottomesse alla Turchia, oltre che positiva per i contadini italiani, che avranno nuove terre. Si tratta, in sostanza, non di nazionalismo vero e proprio, ma di un'evoluzione delle sue utopie socialiste e patriottiche. Il 31 dicembre 1911 compie 56 anni. Sarà il suo ultimo compleanno: poco tempo dopo le sue condizioni di salute peggiorano. Il medico gli consiglia di lasciare Castelvecchio e trasferirsi a Bologna, dove gli viene diagnosticata la cirrosi epatica[14]; nelle memorie della sorella viene invece affermato che fosse malato di epatite e tumore al fegato[15], forse per nascondere l'abuso di alcool. La malattia lo porta alla morte il 6 aprile 1912 nella sua casa di Bologna, in via dell'Osservanza n. 4. Il certificato di morte riporta come causa un tumore allo stomaco, ma è probabile fosse stato redatto dal medico su richiesta di Mariù, che intendeva eliminare tutti gli aspetti che lei giudicava sconvenienti dall'immagine del fratello, come la dipendenza da alcool, la simpatia giovanile per Passannante e la sua affiliazione alla Massoneria.[16][17] Pascoli venne sepolto nella cappella annessa alla sua dimora di Castelvecchio di Barga, dove sarà tumulata anche l'amata sorella Maria, sua biografa, nominata erede universale nel testamento, nonché curatrice delle opere postume.
Il profilo letterario: la sua rivoluzione poetica
L'esperienza poetica pascoliana si inserisce, con tratti originalissimi, nel panorama del decadentismo europeo e segna in maniera indelebile la poesia italiana: essa affonda le radici in una visione pessimistica della vita in cui si riflette la scomparsa della fiducia, propria del Positivismo, e in una conoscenza in grado di spiegare compiutamente la realtà. Il mondo appare all'autore come un insieme misterioso e indecifrabile tanto che il poeta tende a rappresentare la realtà con una pennellata impressionistica che colga solo un determinato particolare del reale, non essendo possibile per l'autore avere una concreta visione d'insieme.
Coerentemente con la visione decadente, il poeta si configura come un "veggente", mediatore di una conoscenza aurorale, in grado di spingere lo sguardo oltre il mondo sensibile: nel Fanciullino, Pascoli afferma quanto il poeta fanciullino sappia dare il nome alle cose, scoprendole nella loro freschezza originaria, in maniera immaginosa e alogica.
La formazione letteraria
La fase cruciale della formazione letteraria di Pascoli va fatta risalire ai nove anni trascorsi a Bologna come studente alla Facoltà di Lettere (1873-1882). Allievo di Carducci, che si accorse subito delle qualità del giovane Pascoli, nella cerchia ristretta dell'ambiente creatosi attorno al poeta, Pascoli visse gli anni più movimentati della sua vita. Qui, protetto comunque dalla naturale dipendenza tra maestro e allievo, Pascoli non ebbe bisogno di alzare barriere nei confronti della realtà, dovendo limitarsi a seguire gli indirizzi ed i modelli del suo corso di studi: i classici, la filologia, la letteratura italiana. Nel 1875 perse la borsa di studio e con essa l'unico mezzo di sostentamento su cui poteva contare. La frustrazione ed i disagi materiali lo spinsero verso il movimento socialista in quella che fu una delle poche, brevi parentesi politiche della sua vita. Nel 1879 venne arrestato e assolto dopo tre mesi di carcere; l'ulteriore senso di ingiustizia e la delusione lo riportarono nell'alveo d'ordine del maestro Carducci e al compimento degli studi con una tesi sul poeta greco Alceo.
A margine degli studi veri e propri, egli, comunque, condusse una vasta esplorazione del mondo letterario ed anche scientifico straniero, attraverso le riviste francesi specializzate come la Revue des deux Mondes, che lo misero in contatto con l'avanguardia simbolista, e la lettura dei testi scientifico-naturalistici di Jules Michelet, Jean-Henri Fabre e Maurice Maeterlinck. Tali testi utilizzavano la descrizione naturalistica - la vita degli insetti soprattutto, per quell'attrazione per il microcosmo così caratteristica del Romanticismo decadente di fine Ottocento - in chiave poetica; l'osservazione era aggiornata sulle più recenti acquisizioni scientifiche dovute al perfezionamento del microscopio e della sperimentazione di laboratorio, ma poi veniva filtrata letterariamente attraverso uno stile lirico in cui dominava il senso della meraviglia e della fantasia. Era un atteggiamento positivista "romanticheggiante" che tendeva a vedere nella natura l'aspetto pre-cosciente del mondo umano.
Coerentemente con questi interessi, vi fu anche quello per la cosiddetta "filosofia dell'inconscio" del tedesco Karl Robert Eduard von Hartmann, l'opera che aprì quella linea di interpretazione della psicologia in senso anti-meccanicistico che sfociò nella psicanalisi freudiana. È evidente in queste letture - come in quella successiva dell'opera dell'inglese James Sully sulla "psicologia dei bambini" - un'attrazione di Pascoli verso il "mondo piccolo" dei fenomeni naturali e psicologicamente elementari che tanto fortemente caratterizzò tutta la sua poesia. E non solo la sua. Per tutto l'Ottocento la cultura europea aveva coltivato un particolare culto per il mondo dell'infanzia, dapprima, in un senso pedagogico e culturale più generico, poi, verso la fine del secolo, con un più accentuato intendimento psicologico. I Romantici, sulla scia di Giambattista Vico e di Rousseau, avevano paragonato l'infanzia allo stato primordiale "di natura" dell'umanità, inteso come una sorta di età dell'oro.
Verso gli anni '80 si cominciò, invece, ad analizzare in modo più realistico e scientifico la psicologia dell'infanzia, portando l'attenzione sul bambino come individuo in sé, caratterizzato da una propria realtà di riferimento. La letteratura per l'infanzia aveva prodotto in meno di un secolo una quantità considerevole di libri che costituirono la vera letteratura di massa fino alla fine dell'Ottocento. Parliamo dei libri per i bambini, come le innumerevoli raccolte di fiabe dei fratelli Grimm (1822), di H.C. Andersen (1872), di Ruskin (1851), Wilde (1888), Maurice Maeterlinck (1909); o come il capolavoro di Carroll, Alice nel Paese delle Meraviglie (1865). Oppure i libri di avventura adatti anche all'infanzia, come i romanzi di Jules Verne, Kipling, Twain, Salgari, London. O libri sull'infanzia, dall'intento moralistico ed educativo, come Senza famiglia di Malot (1878), Il piccolo Lord di F.H. Burnett (1886), Piccole donne di Alcott (1869) e i celeberrimi Cuore di De Amicis (1886) e Pinocchio di Collodi (1887).
Tutto questo ci serve a ricondurre, naturalmente, la teoria pascoliana della poesia come intuizione pura e ingenua, espressa nella poetica del Fanciullino, ai riflessi di un vasto ambiente culturale europeo che era assolutamente maturo per accogliere la sua proposta. In questo senso non si può parlare di una vera novità, quanto piuttosto della sensibilità con cui egli seppe cogliere un gusto diffuso ed un interesse già educato, traducendoli in quella grande poesia che all'Italia mancava dall'epoca di Leopardi. Per quanto riguarda il linguaggio, Pascoli ricerca una sorta di musicalità evocativa, accentuando l'elemento sonoro del verso, secondo il modello dei poeti maledetti Paul Verlaine e Stéphane Mallarmé.
La poesia come "nido" che protegge dal mondo
Per Pascoli la poesia ha natura irrazionale e con essa si può giungere alla verità di tutte le cose; il poeta deve essere un poeta-fanciullo che arriva a questa verità mediante l'irrazionalità e l'intuizione. Rifiuta quindi la ragione e, di conseguenza, rifiuta il Positivismo (che era l'esaltazione della ragione stessa e del progresso), approdando, come si è detto, al decadentismo. La poesia diventa così analogica, cioè senza apparente connessione tra due o più realtà che vengono rappresentate; ma, appunto, solo apparentemente: in realtà c'è una connessione (a volte anche un po' forzata) tra i concetti ed il poeta spesso e volentieri è costretto a "voli vertiginosi" per mettere "in comunicazione" questi concetti. La poesia irrazionale o analogica è una poesia di svelamento o di scoperta e non di invenzione. I motivi principali di questa poesia devono essere "umili cose": cose della vita quotidiana, cose modeste o familiari.
Nella vita dei letterati italiani degli ultimi due secoli ricorre pressoché costantemente la contrapposizione problematica tra mondo cittadino e mondo agreste, intesi come portatori di valori opposti: mentre la campagna appare sempre più come il "paradiso perduto" dei valori morali e culturali, la città diviene simbolo di una condizione umana maledetta e snaturata, vittima della degradazione morale causata da un ideale di progresso puramente materiale. Questa contrapposizione può essere interpretata sia alla luce dell'arretratezza economica e culturale di gran parte dell'Italia rispetto all'evoluzione industriale delle grandi nazioni europee, sia come conseguenza della divisione politica e della mancanza di una grande metropoli unificante come erano Parigi per la Francia e Londra per l'Inghilterra. I "luoghi" poetici della "terra", del "borgo", dell'"umile popolo" che ricorrono fino agli anni del primo dopoguerra non fanno che ripetere il sogno di una piccola patria lontana, che l'ideale unitario vagheggiato o realizzato non spegne mai del tutto.
Decisivo nella continuazione di questa tradizione fu proprio Pascoli, anche se i suoi motivi non furono quelli tipicamente ideologici degli altri scrittori, ma nacquero da radici più intimistiche e soggettive. Nel 1899 scrisse al pittore De Witt: «C'è del gran dolore e del gran mistero nel mondo; ma nella vita semplice e familiare e nella contemplazione della natura, specialmente in campagna, c'è gran consolazione, la quale pure non basta a liberarci dall'immutabile destino».[18]
In questa contrapposizione tra l'esteriorità della vita sociale (e cittadina) e l'interiorità dell'esistenza familiare (e agreste) si racchiude l'idea dominante - accanto a quella della morte - della poesia pascoliana. Dalla casa di Castelvecchio, dolcemente protetta dai boschi della Media Valle del Serchio vicino al borgo medievale di Barga, Pascoli non "uscì" più (psicologicamente parlando) fino alla morte. Pur continuando in un intenso lavoro di pubblicazioni poetiche e saggistiche, e accettando nel 1905 di succedere a Carducci sulla cattedra dell'Università di Bologna, egli ci ha lasciato del mondo una visione univocamente ristretta attorno ad un "centro", rappresentato dal mistero della natura e dal rapporto tra amore e morte.
Fu come se, sopraffatto da un'angoscia impossibile a dominarsi, il poeta avesse trovato nello strumento intellettuale del componimento poetico l'unico mezzo per costringere le paure ed i fantasmi dell'esistenza in un recinto ben delimitato, al di fuori del quale egli potesse continuare una vita di normali relazioni umane. A questo "recinto" poetico egli lavorò con straordinario impegno creativo, costruendo una raccolta di versi e di forme che la letteratura italiana non vedeva, per complessità e varietà, dai tempi di Chiabrera. La ricercatezza quasi sofisticata, e artificiosa nella sua eleganza, delle strutture metriche scelte da Pascoli - mescolanza di novenari, quinari e quaternari nello stesso componimento, e così via - è stata interpretata come un paziente e attento lavoro di organizzazione razionale della forma poetica attorno a contenuti psicologici informi e incontrollabili che premevano dall'inconscio. Insomma, esattamente il contrario di quanto i simbolisti francesi e le altre avanguardie artistiche del primo Novecento proclamavano nei confronti della spontaneità espressiva.
Anche se l'ultima fase della produzione pascoliana è ricca di tematiche socio-politiche (Odi e inni del 1906, i Poemi italici del 1911 e i Poemi del Risorgimento postumi; nonché il celebre discorso La grande Proletaria si è mossa tenuto nel 1911 in occasione di una manifestazione a favore dei feriti della guerra di Libia), non c'è dubbio che la sua opera più significativa è rappresentata dai volumi poetici che comprendono le raccolte di Myricae e dei Canti di Castelvecchio (1903), nonché parte dei Poemetti. Il "mondo" di Pascoli è tutto lì: la natura come luogo dell'anima dal quale contemplare la morte come ricordo dei lutti privati.
« Troppa questa morte? Ma la vita, senza il pensiero della morte, senza, cioè, religione, senza quello che ci distingue dalle bestie, è un delirio, o intermittente o continuo, o stolido o tragico. D'altra parte queste poesie sono nate quasi tutte in campagna; e non c'è visione che più campeggi o sul bianco della gran nave o sul verde delle selve o sul biondo del grano, che quella dei trasporti o delle comunioni che passano: e non c'è suono che più si distingua sul fragor dei fiumi e dei ruscelli, su lo stormir delle piante, sul canto delle cicale e degli uccelli, che quello delle Avemarie. Crescano e fioriscano intorno all'antica tomba della mia giovane madre queste myricae (diciamo cesti o stipe) autunnali. »
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(Dalla Prefazione di Pascoli ai Canti di Castelvecchio)
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Il poeta e il fanciullino
Uno dei tratti salienti per i quali Pascoli è passato alla storia della letteratura è la cosiddetta poetica del fanciullino, da lui stesso così bene esplicitata nello scritto omonimo apparso sulla rivista Il Marzocco nel 1897. In tale scritto, Pascoli, influenzato dal manuale di psicologia infantile di James Sully e da La filosofia dell'inconscio di Eduard von Hartmann, dà una definizione assolutamente compiuta - almeno secondo il suo punto di vista - della poesia (dichiarazione poetica). Si tratta di un testo di 20 capitoli, in cui si svolge il dialogo fra il poeta e la sua anima di fanciullino, simbolo:
- dei margini di purezza e candore, che sopravvivono nell'uomo adulto;
- della poesia e delle potenzialità latenti di scrittura poetica nel fondo dell'animo umano.
Caratteristiche del fanciullino:
- "Rimane piccolo anche quando noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce ed egli fa sentire il suo tinnulo squillo come di campanella".
- "Piange e ride senza un perché di cose, che sfuggono ai nostri sensi ed alla nostra ragione".
- Guarda tutte le cose con stupore e con meraviglia, non coglie i rapporti logici di causa - effetto, ma intuisce.
- "Scopre nelle cose le relazioni più ingegnose".
- Riempie ogni oggetto della propria immaginazione e dei propri ricordi (soggettivazione), trasformandolo in simbolo.
Il poeta allora mantiene una razionalità di fondo, organizzatrice della metrica poetica, ma:
- Possiede una sensibilità speciale, che gli consente di caricare di significati ulteriori e misteriosi anche gli oggetti più comuni;
- Comunica verità latenti agli uomini: è "Adamo", che mette nome a tutto ciò che vede e sente (secondo il proprio personale modo di sentire, che tuttavia ha portata universale).
- Deve saper combinare il talento della fanciullezza (saper vedere), con quello della vecchiaia (saper dire);
- Percepisce l'essenza delle cose e non la loro apparenza fenomenica.
La poesia, quindi, è tale solo quando riesce a parlare con la voce del fanciullo ed è vista come la perenne capacità di stupirsi tipica del mondo infantile, in una disposizione irrazionale che permane nell'uomo anche quando questi si è ormai allontanato, almeno cronologicamente, dall'infanzia propriamente intesa. È una realtà ontologica. Ha scarso rilievo per Pascoli la dimensione storica (egli trova suoi interlocutori in Omero, Virgilio, come se non vi fossero secoli e secoli di mezzo): la poesia vive fuori dal tempo ed esiste in quanto tale. Nel fare poesia una realtà ontologica (il poeta-microcosmo) si interroga su un'altra realtà ontologica (il mondo-macrocosmo); ma per essere poeta è necessario confondersi con la realtà circostante senza che il proprio punto di vista personale e preciso interferisca: il poeta si impone la rinuncia a parlare di se stesso, tranne in poche poesie, in cui esplicitamente parla della sua vicenda personale. È vero che la vicenda autobiografica dell'autore caratterizza la sua poesia, ma con connotazioni di portata universale: ad esempio la morte del padre viene percepita come l'esempio principe della descrizione dell'universo, di conseguenza gli elementi autenticamente autobiografici sono scarsi, in quanto raffigura il male del mondo in generale. Tuttavia, nel passo XI de "Il fanciullino", Pascoli dichiara che un vero poeta è, più che altro, il suo sentimento e la sua visione che cerca di trasmettere agli altri. Per cui il poeta Pascoli rifiuta:
- il Classicismo, che si qualifica per la centralità ed unicità del punto di vista del poeta, che narra la sua opera ed esprime la proprie sensazioni.
- il Romanticismo, dove il poeta fa di sé stesso, dei suoi sentimenti e della sua vita, poesia.
La poesia, così definita, è naturalmente buona ed è occasione di consolazione per l'uomo ed il poeta.
Pascoli fu anche commentatore e critico dell'opera di Dante e diresse inoltre la collana editoriale "Biblioteca dei Popoli".
Il limite della poesia del Pascoli è costituito dall'ostentata pateticità e dall'eccessiva ricerca dell'effetto commovente. D'altro canto, il merito maggiore attribuibile al Pascoli fu quello di essere riuscito nell'impresa di far uscire la poesia italiana dall'eccessiva aulicità e retoricità non solo del Carducci e del Leopardi, ma anche del suo contemporaneo D'Annunzio. In altre parole, fu in grado di creare finalmente un legame diretto con la poesia d'Oltralpe e di respiro europeo.
La lingua pascoliana è profondamente innovativa: essa perde il proprio tradizionale supporto logico, procede per simboli ed immagini, con brevi frasi, musicali e suggestive.
La poesia cosmica
Fanno parte di questa produzione pascoliana liriche come Il bolide (Canti di Castelvecchio) e La vertigine (Nuovi Poemetti). Il poeta scrive nei versi conclusivi de Il bolide: "E la terra sentii nell'Universo. / Sentii, fremendo, ch'è del cielo anch'ella. / E mi vidi quaggiù piccolo e sperso / errare, tra le stelle, in una stella". Si tratta di componimenti permeati di spiritualismo e di panteismo ( La Vertigine). La Terra è errante nel vuoto, non più qualcosa di certo; lo spazio aperto è la vera dimora dell'uomo rapito come da un vento cosmico. Scrive il critico Giovanni Getto: " È questo il modo nuovo, autenticamente pascoliano, di avvertire la realtà cosmica: al geocentrismo praticamente ancora operante nell'emozione fantastica, nonostante la chiara nozione copernicana sul piano intellettuale, del Leopardi, il Pascoli sostituisce una visione eliocentrica o addirittura galassiocentrica: o meglio ancora, una visione in cui non si dà più un centro di sorta, ma soltanto sussistono voragini misteriose di spazio, di buio e di fuoco. Di qui quel sentimento di smarrita solitudine che nessuno ancora prima del Pascoli aveva saputo consegnare alla poesia".[19][20]
La lingua pascoliana
Pascoli disintegra la forma tradizionale del linguaggio poetico: con lui la poesia italiana perde il suo tradizionale supporto logico, procede per simboli ed immagini, con frasi brevi, musicali e suggestive. Il linguaggio è fonosimbolico con un frequente uso di onomatopee, metafore, sinestesie, allitterazioni, anafore, vocaboli delle lingue speciali (gerghi). La disintegrazione della forma tradizionale comporta "il concepire per immagini isolate (il frammentismo), il periodo di frasi brevi e a sobbalzi (senza indicazione di passaggi intermedi, di modi di sutura), pacatamente musicali e suggestive; la parola circondata di silenzio. "[21] Pascoli ha rotto la frontiera tra grammaticalità e evocatività della lingua. E non solo ha infranto la frontiera tra pregrammaticalità e semanticità, ma ha anche annullato "il confine tra melodicità ed icasticità, cioè tra fluido corrente, continuità del discorso, e immagini isolate autosufficienti. In una parola egli ha rotto la frontiera fra determinato e indeterminato".[22]
Elenco delle opere
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Approfondimenti
Myricae
Per approfondire, vedi la voce Myricae. |
Il libro Myricae è la prima vera e propria raccolta di poesie del Pascoli, nonché una delle più amate. Il titolo riprende una citazione di Virgilio all'inizio della IV Bucolica in cui il poeta latino proclama di innalzare il tono poetico poiché "non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici" (non omnes arbusta iuvant humilesque myricae). Pascoli invece propone "quadretti" di vita campestre in cui vengono evidenziati particolari, colori, luci, suoni i quali hanno natura ignota e misteriosa. Il libro crebbe per il numero delle poesie in esso raccolte. Nel 1891, data della sua prima edizione, il libro raccoglieva soltanto 22 poesie dedicate alle nozze di amici. Nel 1903, la raccolta definitiva comprendeva 156 liriche del poeta. I componimenti sono dedicati al ciclo delle stagioni, al lavoro dei campi e alla vita contadina. Le myricae, le umili tamerici, diventano un simbolo delle tematiche del Pascoli ed evocano riflessioni profonde.
La descrizione realistica cela un significato più ampio così che, dal mondo contadino si arriva poi ad un significato universale. La rappresentazione della vita nei campi e della condizione contadina è solo all'apparenza il messaggio che il poeta vuole trasmettere con le sue opere. In realtà questa frettolosa interpretazione della poetica pascoliana fa da scenario a stati d'animo come inquietudini ed emozioni. Il significato delle Myricae va quindi oltre l'apparenza. Nell'edizione del 1897 compare la poesia Novembre, mentre nelle successive compariranno anche altri componimenti come L'Assiuolo. Pascoli ha dedicato questa raccolta alla memoria di suo padre ("A Ruggero Pascoli, mio padre").
La produzione latina
Giovanni Pascoli fu anche autore di poesie in lingua latina e con esse vinse per ben tredici volte il Certamen Hoeufftianum, un prestigioso concorso di poesia latina che annualmente si teneva ad Amsterdam. La produzione latina accompagnò il poeta per tutta la sua vita: dai primi componimenti scritti sui banchi del collegio degli Scolopi di Urbino, fino a Thallusa, poemetto di cui il poeta seppe della vittoria solo sul letto di morte nel 1912. In particolare, l'anno 1892 fu insieme l'anno della sua prima premiazione con il poemetto Veianus e l'anno della stesura definitiva delle Myricae. Pascoli amava molto il latino, che può essere considerato la sua lingua del cuore: il poeta scriveva in latino, prendeva appunti in latino, spesso pensava in latino, trasponendo poi espressioni latine in italiano; la sorella Maria ricorda che dal suo letto di morte Pascoli parlò in latino, anche se la notizia è considerata dai più poco attendibile, dal momento che la sorella non conosceva questa lingua. Per lungo tempo la produzione latina pascoliana non ha ricevuto l'attenzione che merita, essendo stata erroneamente considerata quale un semplice esercizio del poeta. Il Pascoli in quegli anni non era infatti l'unico a cimentarsi nella poesia latina (Giuseppe Giacoletti, un insegnante di Pascoli vinse l'edizione del Certamen del 1863 con un poemetto sulle locomotive a vapore[23]), ma lo fece in maniera nuova e con risultati, poetici e linguistici, sorprendenti. L'attenzione verso questi componimenti si accese con la raccolta in due volumi curata da Ermenegildo Pistelli nel 1914[24], col saggio di Adolfo Gandiglio nell'edizione del 1930[25]. Esistono delle traduzioni in lingua italiana delle poesie latine di Pascoli quali quella curata da Manara Valgimigli[26] o le traduzioni di Enzo Mandruzzato[27].
Tuttavia la produzione latina ha un significato fondamentale, essendo coerente con la poetica del Fanciullino, la cifra del pensiero pascoliano. In realtà, la poetica del Fanciullino è la confluenze di due differenti poetiche: la poetica della memoria e la poetica delle cose. Gran parte della poesia pascoliana nasce dalle memorie, dolci e tristi, della sua infanzia: "Ditelo voi […], se la poesia non è solo in ciò che fu e in ciò che sarà, in ciò che è morto e in ciò che è sogno! E dite voi, se il sogno più bello non è sempre quello in cui rivive ciò che è morto". Pascoli dunque intende fare rivivere ciò che è morto, attingendo non solo al proprio ricordo personale, bensì travalica la propria esperienza, descrivendo personaggi facenti parte anche dell'evo antico: infanzia e mondo antico sono le età nelle quali l'uomo vive o è vissuto più vicino ad una sorta di stato di natura. "Io sento nel cuore dolori antichissimi, pure ancor pungenti. Dove e quando ho provato tanti martori? Sofferto tante ingiustizie? Da quanti secoli vive al dolore l'anima mia? Ero io forse uno di quegli schiavi che giravano la macina al buio, affamati, con la museruola?". Contro la morte - delle lingue, degli uomini e delle epoche - il poeta si appella alla poesia: essa è la sola, la vera vittoria umana contro la morte. "L'uomo alla morte deve disputare, contrastare, ritogliere quanto può". Ma da ciò non consegue di necessità l'uso del latino.
Qui interviene l'altra e complementare poetica pascoliana: la poetica delle cose. "Vedere e udire: altro non deve il poeta. Il poeta è l'arpa che un soffio anima, è la lastra che un raggio dipinge. La poesia è nelle cose". Ma questa aderenza alle cose ha una conseguenza linguistica di estrema importanza, ogni cosa deve parlare quanto più è possibile con la propria voce: gli esseri della natura con l'onomatopea, i contadini col vernacolo, gli emigranti con l'italo-americano, Re Enzio col bolognese del Duecento; i Romani, naturalmente, parleranno in latino. Dunque il bilinguismo di Pascoli in realtà è solo una faccia del suo plurilinguismo. Bisogna tenere conto anche di un altro elemento: il latino del Pascoli non è la lingua che abbiamo appreso a scuola. Questo è forse il secondo motivo per il quale la produzione latina pascoliana è stata per anni oggetto di scarso interesse: per poter leggere i suoi poemetti latini è necessario essere esperti non solo del latino in generale, ma anche del latino di Pascoli. Si è già fatto menzione del fatto che nello stesso periodo, e anche prima di lui, altri autori avevano scritto in latino; scrivere in latino per un moderno comporta due differenti e contrapposti rischi. L'autore che si cimenti in questa impresa potrebbe, da una parte, incappare nell'errore di esprimere una sensibilità moderna in una lingua classica, cadendo in un latino maccheronico; oppure potrebbe semplicemente imitare gli autori classici, senza apportare alcuna novità alla letteratura latina.
Pascoli invece reinventa il latino, lo plasma, piega la lingua perché possa esprimere una sensibilità moderna, perché possa essere una lingua contemporanea. Se oggi noi parlassimo ancora latino, forse parleremmo il latino di Pascoli. (cfr. Alfonso Traina, Saggio sul latino del Pascoli, Pàtron). Numerosi sono i componimenti, in genere raggruppati in diverse raccolte secondo l'edizione del Gandiglio, tra le quali: Poemata Christiana, Liber de Poetis, Res Romanae, Odi et Hymni. Due sembrano essere i temi favoriti del poeta: Orazio, poeta della mediocritas, che Pascoli sentiva come suo alterego, e le madri orbate, cioè private del loro figlio (cfr. Thallusa, Pomponia Graecina, Rufius Crispinus). In quest'ultimo caso il poeta sembra come ribaltare la sua esperienza personale di orfano, privando invece le madri del loro ocellus ("occhietto", come Thallusa chiama il bambino). I Poemata Christiana sono da considerarsi il suo capolavoro in lingua latina. In essi Pascoli traccia attraverso i vari poemetti, tutti in esametri, la storia del Cristianesimo in Occidente: dal ritorno a Roma del centurione che assistette alla morte di Cristo sul Golgota (Centurio), alla penetrazione del Cristianesimo nella società romana, dapprima attraverso gli schiavi (Thallusa), poi attraverso la nobiltà romana (Pomponia Graecina), fino al tramonto del paganesimo (Fanum Apollinis).
Curiosità
Il rinvenimento del testamento massonico di Pascoli a forma di triangolo è opera dello storico Gian Luigi Ruggio. Il documento fu acquistato dal Grande Oriente d'Italia nel giugno 2006 ad un'asta di manoscritti storici della casa Bloomsbury[28], e la notizia fu resa nota al grande pubblico per la prima volta ne Il Corriere della Sera, 22 giugno 2007.
Onori
- Nel 2012, in occasione del centenario della morte del poeta, varie città gli dedicano importanti manifestazioni. Oltre a San Mauro Pascoli [1] e Barga [2], si possono ricordare: Forlì [3], Lecce [4], Urbino [5].
- Nel 2012, viene anche coniata un'apposita moneta celebrativa da 2 euro [6].
Bibliografia
- Antonio Piromalli, La poesia di Giovanni Pascoli, Pisa, Nistri Lischi, 1957
- Maria Pascoli, Lungo la vita di Giovanni Pascoli, Milano, Mondadori, 1961
- Maura Del Serra, Giovanni Pascoli, Firenze, La Nuova Italia ("Strumenti", 60), 1976, pp. 128.
- Maura Del Serra, Voce Pascoli, in AA.VV., Il Novecento, Milano, Vallardi, 1989, pp. 83-125.
- Arnaldo Di Benedetto, Frammenti su «Digitale purpurea» nei «Primi poemetti» di Giovanni Pascoli, in Poesia e critica del Novecento, Napoli, Liguori, 1994, pp. 5-24.
- Gian Luigi Ruggio, Giovanni Pascoli: tutto il racconto della vita tormentata di un grande poeta (in appendice un'ampia antologia dei suoi versi migliori), Milano, Simonelli, 1998
- Maria Santini, Candida Soror: tutto il racconto della vita di Mariù Pascoli la più adorata sorella del poeta della Cavalla storna, Milano, Simonelli, 2003.
- Giovanni Pascoli, Le Petit Enfant trad. dall'italiano, introd. e annotato da Bertrand Levergeois (prima edizione francese del "Fanciullino" in Francia), Parigi, Michel de Maule, "L'Absolu Singulier", 2004
- Giovanni Pascoli (1980) Saggi di critica e di estetica
- Cesare Garboli, Poesie e prose scelte di Giovanni Pascoli, 2 voll., Milano, Mondadori, 2002.
- Marinella Mazzanti, "I segreti del 'nido'. Le carte di Giovanni e Maria Pascoli a Castelvecchio", in Raffaella Castagnola (a c. di), Archivi letterari del '900, Firenze, Franco Cesati, 2000, pp. 99-104.
- Carmelo Ciccia, Pascoli e gli uccelli, in Saggi su Dante e altri scrittori, Pellegrini, Cosenza, 2007. ISBN 978-88-8101-435-4
- Mario Martelli, Pascoli 1903-1904: tra rima e sciolto, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2010. ISBN 978-88-6032-098-8
- Giovanni Pascoli, Post Occasum Urbis, a cura di Orazio Aiello, Palermo, Biblioteca philologica, 1995. ISBN 88-8302-026-X
- Giovanni Pascoli, a cura di Pietro Montorfani e Federica Alziati, Bologna, Massimiliano Boni Editore, 2012.
Note
- ^ http://www.forli24ore.it/tag/pietro-cacciaguerra Omicidio Pascoli
- ^ Alessandro Riva, 365 delitti. Uno al giorno, 1998, pag. 377
- ^ Giuseppe Galzerano, Giovanni Passannante, Casalvelino Scalo, 2004, p.270
- ^ Piero Bianconi, Pascoli, Morcelliana, 1935, p.26
- ^ Giuseppe Galzerano, Giovanni Passannante, Casalvelino Scalo, 2004, p.272
- ^ Ugoberto Alfassio Grimaldi, Il re buono, Feltrinelli, 1980,p. 146
- ^ Il rinvenimento è opera dello storico Gian Luigi Ruggio, il documento fu acquistato dal Grande Oriente d'Italia nel giugno 2006 ad un'asta di manoscritti storici della casa Bloomsbury, e la notizia fu resa nota al grande pubblico per la prima volta ne Il Corriere della Sera, 22 giugno 2007.
- ^ Vi fu professore straordinario di grammatica greca e latina dal 25 ottobre 1895.
- ^ Vi insegnò letteratura latina come professore ordinario dal 27 ottobre 1897.
- ^ Fu nominato professore di grammatica greca e latina il 28 giugno 1903. Le date sulle docenze universitarie sono prese da Maurizio Perugi, "Nota biografica", in G. Pasocli, Opere, tomo I, Milano-Napoli: Ricciardi, 1980, pp. XXXVII-XL.
- ^ Fondazione Pascoli: la vita, parte 3
- ^ Gian Luigi Ruggio, Giovanni Pascoli. Tutto il racconto della vita tormentata di un grande poeta
- ^ Vittorino Andreoli, I segreti di casa Pascoli, recensione qui
- ^ Fondazione Pascoli: la vita
- ^ Maria Pascoli, Lungo la vita di Giovanni Pascoli
- ^ Pascoli: il lutto, il triangolo, il classico e il decadentista
- ^ Vittorino Andreoli, op. cit
- ^ Maria Pascoli, Lungo la vita di Giovanni Pascoli, Milano, Mondadori, 1961, p. 616 n.2
- ^ Giovanni Getto, Giovanni Pascoli poeta astrale, in "Studi per il centenario della nascita di G. Pascoli". Commissione per i testi di lingua, Bologna, 1962.,
- ^ Fondazione Giovanni Pascoli - Nuovi poemetti
- ^ A. Schiaffini, G. Pascoli disintegratore della forma poetica tradizionale, in "Omaggio a Pascoli", pp. 240-245
- ^ G. Contini, Il linguaggio di Pascoli, in "Studi pascoliani", Lega, Faenza, 1958, p. 30 e sgg.
- ^ Giuseppe Giacoletti, De lebetis materie et forma eiusque tutela in machinis vaporis vi agentibus carmen didascalicum, Amstelodami: C. G. Van Der Post, 1863
- ^ Ioannis Pascoli carmina; collegit Maria soror; edidit H. Pistelli ; exornavit A. De Karolis, Bononiae: Zanichelli, 1914
- ^ Ioannis Pascoli Carminibus; mandatu Maria sororis recognitis; appendicem criticam addidit Adolphus Gandiglio, Bononiae: sumptu Nicolai Zanichelli, 1930
- ^ Giovanni Pascoli, Poesie latine; a cura di Manara Valgimigli, Milano : A. Mondadori, 1951
- ^ Giovanni Pascoli, Poemi cristiani; introduzione e commento di Alfonso Traina; traduzione di Enzo Mandruzzato, Milano: Biblioteca universale Rizzoli, 1984, ISBN 88-17-12493-1
- ^ Letteratura: Il Testamento Massonico Di Giovanni Pascoli « Massoneria Italia
Voci correlate
- Accademia Pascoliana
- Augusto Vicinelli
- Giovanni Pascoli e Rimini
- Decadentismo
- Digitale purpurea
- Gabriele D'Annunzio
- Giosuè Carducci
- Ruggero Pascoli
- Socialismo utopico
- Thallusa
Altri progetti
- Wikisource contiene opere originali di Giovanni Pascoli
- Commons contiene file multimediali su Giovanni Pascoli
- Wikiquote contiene citazioni di o su Giovanni Pascoli
Collegamenti esterni
- Sito ufficiale della Fondazione Giovanni Pascoli
- Tutte le opere, disponibili nella biblioteca online Giuseppe Bonghi
- LiberLiber, Vita e opere di Giovanni Pascoli
- Opere di Giovanni Pascoli, testi con concordanze, lista delle parole e lista di frequenza
- Casa Pascoli, sito ufficiale del Museo Casa Pascoli dedicato al poeta
- Giovanni Pascoli su Marginalia
- Enciclopedia Treccani, Biografia di Giovanni Pascoli
- Archivio storico - Università di Bologna
- Un percorso di lettura attraverso i "Poemi conviviali"
- Giovanni Pascoli: ritratto ed eventi sul portale RAI Letteratura
NOTE DEL CIRCOLO CULTURALE LUZI
Giovanni Pascoli nasce a S.Mauro di Romagna nel 1855. All'età di dodici anni perde il padre, ucciso da una fucilata sparata da ignoti; la famiglia è così costretta a lasciare la tenuta che il padre amministrava e perde la tranquillità economica di cui godeva. Nei successivi sette anni Pascoli perde la madre, una sorella e due fratelli; prosegue gli studi a Firenze e poi a Bologna. Qui aderisce alle idee socialiste, fa propaganda e viene arrestato nel 1879; nel 1882 si laurea in lettere. Insegna greco e latino a Matera, Massa e Livorno, cercando di riunire attorno a sè i resti della famiglia e pubblicando le prime raccolte di poesie: "L'ultima passeggiata" (1886) e "Myricae" (1891).
L'anno seguente vince la prima delle sue 13 medaglie d'oro al concorso di poesia latina di Amsterdam. Dopo un breve soggiorno a Roma, va ad abitare a Castelvecchio con una sorella e passa all'insegnamento universitario, prima a Bologna, poi a Messina e a Pisa; pubblica tre saggi danteschi e varie antologie scolastiche. La sua produzione poetica prosegue con i "Poemetti" (1897) e i "Canti di Castelvecchio" (1903); sempre nel 1903 raccoglie i suoi discorsi sia politici (si era intanto convertito al credo nazionalista), che poetici e scolastici nei "Miei pensieri di varia umanità". Rileva poi la cattedra di letteratura italiana a Bologna, succedendo al Carducci al cui insegnamento si riallaccia; pubblica gli "Odi ed inni" (1907), le "Canzoni di re Enzo" e i "Poemi italici" (1908-11). Nel 1912 la sua salute peggiora e deve lasciare l'insegnamento e curarsi a Bologna, dove muore poco dopo.
Romagna
Sempre un villaggio, sempre una campagna
mi ride al cuore (o piange), Severino:
il paese ove, andando, ci accompagna
l'azzurra vision di San Marino:
sempre mi torna al cuore il mio paese
cui regnarono Guidi e Malatesta,
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.
La' nelle stoppie dove singhiozzando
va la tacchina con l'altrui covata,
presso gli stagni lustreggianti, quando
lenta vi guazza l'anatra iridata,
oh! fossi io teco; e perderci nel verde,
e di tra gli olmi, nido alle ghiandaie,
gettarco l'urlo che lungi si perde
dentro il meridiano ozio dell'aie;
mentre il villano pone dalle spalle
gobbe la ronca e afferra la scodella,
e 'l bue rimina nelle opache stalle
la sua laboriosa lupinella.
Da' borghi sparsi le campane in tanto
si rincorron coi lor gridi argentini:
chiamano al rezzo, alla quiete, al santo
desco fiorito d'occhi di bambini.
Gia' m'accoglieva in quelle ore bruciate
sotto l'ombrello di trine una mimosa,
che fioria la mia casa ai di' d'estate
co' suoi pennacchi di color di rosa;
e s'abbracciava per lo sgretoalto
muro un folto rosaio a un gelsomino;
guardava il tutto un pioppo alto e slanciato,
chiassoso a giorni come un birichino.
Era il mio nido: dove immobilmente,
io galoppava con Guidon Selvaggio
e con Astolfo; o mi vedea presente
l'imperatore nell'eremitaggio.
E mentre aereo mi poneva in via
con l'ippogrifo pel sognato alone,
o risonava nella stanza mia
muta il dettare di Napoleone;
udia tra i fieni allor falciati
de' grilli il verso che perpetuo trema,
udiva dalle rane dei fossati
un lungo interminabile poema.
E lunghi, e interminati, erano quelli
ch'io meditai, mirabili a sognare:
stormir di frondi, cinguettio d'uccelli,
riso di donne, strepito di mare.
Ma da quel nido, rondini tardive,
tutti tutti migrammo un giorno nero;
io, la mia patria or e' dove si vive;
gli altri son poco lungi; in cimitero.
Cosi' piu' non verro' per la calura
tra que' tuoi polverosi biancospini,
ch'io non ritrovi nella mia verzura
del cuculo ozioso i piccolini,
Romagna solatia, dolce paese,
cui regnarono Guidi e Malatesta;
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.
L'AQUILONE
C'è qualcosa di nuovo oggi nel sole,
anzi d'antico: io vivo altrove, e sento
che sono intorno nate le viole.
Son nate nella selva del convento
dei cappuccini, tra le morte foglie
che al ceppo delle quercie agita il vento.
Si respira una dolce aria che scioglie
le dure zolle, e visita le chiese
di campagna, ch'erbose hanno le soglie:
un'aria d'altro luogo e d'altro mese
e d'altra vita: un'aria celestina
che regga molte bianche ali sospese...
sì, gli aquiloni! E' questa una mattina
che non c'è scuola. Siamo usciti a schiera
tra le siepi di rovo e d'albaspina.
Le siepi erano brulle, irte; ma c'era
d'autunno ancora qualche mazzo rosso
di bacche, e qualche fior di primavera
bianco; e sui rami nudi il pettirosso
saltava, e la lucertola il capino
mostrava tra le foglie aspre del fosso.
Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino
ventoso: ognuno manda da una balza
la sua cometa per il ciel turchino.
Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza,
risale, prende il vento; ecco pian piano
tra un lungo dei fanciulli urlo s'inalza.
S'inalza; e ruba il filo dalla mano,
come un fiore che fugga su lo stelo
esile, e vada a rifiorir lontano.
S'inalza; e i piedi trepidi e l'anelo
petto del bimbo e l'avida pupilla
e il viso e il cuore, porta tutto in cielo.
Più su, più su: già come un punto brilla
lassù, lassù... Ma ecco una ventata
di sbieco, ecco uno strillo alto... - Chi strilla?
Sono le voci della camerata mia:
le conosco tutte all'improvviso,
una dolce, una acuta, una velata...
A uno a uno tutti vi ravviso,
o miei compagni! E te, sì, che abbandoni
su l'omero il pallor muto del viso.
Sì: dissi sopra te l'orazioni,
e piansi: eppur, felice te che al vento
non vedesti cader che gli aquiloni!
Tu eri tutto bianco, io mi rammento:
solo avevi del rosso nei ginocchi,
per quel nostro pregar sul pavimento.
Oh! te felice che chiudesti gli occhi
persuaso, stringendoti sul cuore
il più caro dei tuoi cari balocchi!
Oh! dolcemente, so ben io, si muore
la sua stringendo fanciullezza al petto,
come i candidi suoi pètali un fiore
ancora in boccia! O morto giovinetto,
anch'io presto verrò sotto le zolle
là dove dormi placido e soletto...
Meglio venirci ansante, roseo, molle
di sudor, come dopo una gioconda
corsa di gara per salire un colle!
Meglio venirci con la testa bionda,
che poi che fredda giacque sul guanciale,
ti pettinò co' bei capelli a onda tua madre...
adagio, per non farti male.
Data di creazione: 30/09/2010 @ 12:30
Ultima modifica: 01/11/2012 @ 14:58
Categoria: POESIA DEL NOVECENTO ITALIANO
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